Breve ma veridica storia

Inauguriamo le presentazioni delle borsiste e dei borsisti di Quale Barocco? con il post di Vincenzo Pernice, vincitore del bando della Fondazione 1563 con un progetto intitolato Barocco e decadenza. Autori, oggetti, stilemi seicenteschi negli scritti e nelle collezioni di Gabriele d’Annunzio.

Fu durante una lezione di Italiano, al terzo anno di istituto tecnico, che ebbi il primo incontro con il Barocco. La professoressa leggeva il celeberrimo Elogio della rosa di Giovan Battista Marino, a torto o a ragione presentandocelo come un componimento a sé.

Dalle allitterazioni delle sibilanti e delle vibranti (“Rosa riso d’amor, del ciel fattura, / rosa del sangue mio fatta vermiglia”), alle metafore incalzanti (“Porpora de’ giardin, pompa de’ prati, / gemma di primavera, occhio d’aprile”): negli innumerevoli virtuosismi tecnici di quelle ottave, spiegava la docente, risiedeva la “meraviglia” considerata da Marino il fine ultimo della poesia. E in quale altro modo, se non meravigliando i lettori, avrebbe potuto tenere desta l’attenzione? Quegli oltre settanta versi erano sì dedicati alla sola rosa, ma quante e quali immagini era riuscito a cavarvi l’ingegno moltiplicatore del nostro conterraneo!

Copertina di Giovan Battista Marino, Amori

Giovan Battista Marino, Amori, a cura di Alessandro Martini, 1982. In copertina: Annibale Carracci, Susanna e i vecchioni

Se son rose…

Perché come Marino, infatti, sono napoletano, più precisamente nato a Torre del Greco, la città dove ho frequentato l’Istituto Nautico “Cristoforo Colombo”. Dopo il diploma da perito per il trasporto marittimo, giacché esperto in cambi di rotta, mi sono iscritto a Lettere alla “Federico II”. Lì, al secondo anno, ho ritrovato il poeta della rosa. Quale piacere apprendere che le ottave lette a quindici anni erano parte di un’opera, L’Adone (1623), composta di oltre 40.000 versi, e che di Marino esistevano decine di seguaci, appunto i cosiddetti marinisti, che per tutto il Seicento hanno imperversato in Italia e in Europa.

C’era abbastanza materiale da spingermi a correre alle bancarelle di Port’Alba per acquistare, nonostante non fossero parte del programma d’esame, l’antologia degli Amori (a cura di Alessandro Martini, 1982) e il volume dedicato al Seicento della collana Poesia italiana di Garzanti (a cura di Lucio Felici, 1978). Il libriccino amoroso conteneva, con mia grande sorpresa, immagini dei dipinti di Caravaggio, Sinibaldo Scorza, Annibale Carracci, ai quali Marino si è ispirato nel comporre i versi ecfrastici della sua Galeria (1619). Riproduzioni di piccolo formato, in bianco e nero, ma oro colato per un ventenne che stava scoprendo anche la storia dell’arte.

(Anni dopo, in una monografia su Adolfo Wildt, ho trovato una riflessione illuminante sul ruolo svolto dalle fotografie in bianco e nero nella comprensione del chiaroscuro).

Nel nome del Vate

Le prime ricerche, condotte in occasione delle tesi di laurea a Napoli e alla Statale di Milano, mi hanno portato ad approfondire la letteratura italiana otto-novecentesca. Ma il Seicento ha continuato a ripresentarmisi con tutte le sue attrattive. A Roma il 24 novembre 2017, per esempio. Ormai milanese acquisito, mi ero recato alla Capitale per l’esame finale del mio master in Arte e Letteratura inglese. Scartata l’idea di qualche visita frettolosa ai musei, optai per una mezza giornata all’aria aperta: la flânerie, ecco cosa ci voleva per distendere i nervi dopo un esame su Shakespeare, sui preraffaelliti!

Di Roma, ammetto, serbavo ricordi dolceamari. Era la città delle estenuanti gite scolastiche, dei turisti accalcati, dei romanzi parlamentari. Quella volta, invece, complice la solitudine, davanti alla Fontana del Tritone, a quella delle Tartarughe, infine a Piazza di Spagna, ricordai i versi e le prose del giovane d’Annunzio (altro amore di vecchia data), espressione di una sensibilità che sentivo affine alla mia:

Un fiato di primavera passava nell’aria. La colonna della Concezione saliva agile al sole, come uno stelo, con la Rosa mystica in sommo; la Barcaccia era carica di diamanti; la scala della Trinità slargava in letizia i suoi bracci verso la chiesa di Carlo VIII erta con le due torri in un azzurro annobilito da’ nuvoli, in un cielo antico del Piranesi.

― Che meraviglia!― esclamò Donna Maria. ― Avete ragione d’esser tanto innamorato di Roma.

“Prima o poi tornerò sulla Roma del Piacere” pensai. La Roma barocca, in fondo.

Souvenir della giornata (oltre al diploma di master, si intende) fu un librone di grande formato di Renzo Umberto Montini, Arte e fede (1962), acquistato per pochi euro da un robivecchi. È una carrellata nell’arte sacra d’Europa, con un capitolo dedicato all’Urbe. Superato nel metodo e nelle informazioni riportate, mi attirò per le tavole (in bianco e nero!) del Battesimo di Cristo di Francesco Mochi. Per quanto abbia provato a ripulirlo, reca ancora tracce di autentica polvere capitolina, ricordo della mia epifania berniniana. “Eppoi so’ macchie antiche: è più stimato! / So’ patacche dell’epoca, capisce? / Puzzonate der secolo passato!” (Trilussa, L’antiquario).

Roma, Piazza di Spagna in una cartolina di fine Ottocento

… fioriranno!

Gli anni di dottorato alla IULM, dedicati al Futurismo in compagnia di amici studiosi di videogiochi, possono sembrare lontani da tutto questo. Invece hanno confermato, se non altro, il mio interesse per le intersezioni arte-letteratura, per la cultura antiaccademica, per le personalità istrioniche, per le varie declinazioni di quella “meraviglia” che, teorizzata nel Seicento, è tornata a sedurre il Novecento (come ricorda il titolo di una mostra ahimè vista solo in catalogo), in forma ora di collezionismo, ora di ripresa nella produzione di artisti e scrittori.

Il mio ingresso in Quale Barocco? con un progetto su d’Annunzio e il Vittoriale va dunque ad armonizzarsi, ne sono certo, con le mie curiosità e il mio profilo interdisciplinare. Alle colleghe, ai colleghi, a quanti interessati a leggere il frutto delle nostre ricerche, nell’ambito di un gruppo di lavoro composto perlopiù da secentisti e storici dell’arte, offro il punto di vista di chi ha riposto le mitragliatrici e il loro taratatatata per tornare a cogliere rose. Di chi, come i collezionisti del secolo scorso, riscopre il Seicento attraverso gli occhi di Andrea Sperelli, in un cortocircuito tra Barocco e decadenza. Una prospettiva diversa, spero.

Vincenzo Pernice

Vincenzo legge Poesia italiana. Il Seicento, a cura di Lucio Felici, 1978