Gli approfondimenti del nostro blog dedicati alla fortuna del Barocco nel Novecento proseguono con il curioso caso del pittore genovese Valerio Castello.

Un esempio interessante della mutevole fortuna del Barocco è quello di Valerio Castello (1624-1659), genio estroso, costantemente alla ricerca di stimoli insoliti. Figlio d’arte di Bernardo, anch’egli pittore, diventato famoso per aver illustrato La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, fu allievo di un altro celebre artista, Domenico Fiasella, ma non seguì né la maniera dell’uno né dell’altro, trovando piuttosto nei modelli lombardi e in Parmigianino l’ispirazione per la sua tipica pittura dinamica, per

«quel brio, facilità, espressione, che accompagnan sempre il suo pennello».

Una pagina illustrata della Gerusalemme Liberata con un’incisione di Bernardo Castello

Un inizio scoppiettante

Valerio Castello ebbe notevole fortuna fin da subito, mentre era ancora in vita: le sue opere venivano copiate e andavano a ruba, ricercate non solo dai genovesi ma anche dai francesi e dagli inglesi. I due scrittori locali di biografie di artisti, Raffaele Soprani (1674) e Carlo Giuseppe Ratti (1768-1769), ne esaltano «la vivezza dei coloriti e l’effetto dei chiaroscuri» nei quali era superiore a tutti gli altri pittori: elogi non particolarmente straordinari, considerando anche il consueto entusiasmo campanilistico.

«la vivezza dei coloriti e l’effetto dei chiaroscuri»

Stupisce invece il giudizio di Luigi Lanzi, autore della prima moderna storia dell’arte italiana pubblicata a cavallo tra Settecento e Ottocento. Secondo Lanzi, solitamente non benevolo con i pittori non toscani, «Valerio Castello è uno de’ più grandi geni della scuola ligustica» per le eccezionali doti di colorista, che facevano persino passare in secondo piano la sua poca precisione nel disegno, uno dei pilastri fondamentali della concezione pittorica di Lanzi. L’apprezzamento, poi, è ancora più insolito se si considera che l’autore apparteneva ormai a un’altra epoca, generalmente ostile all’arte barocca.

«Valerio Castello è uno de’ più grandi geni della scuola ligustica»

Valerio Castello, Ratto di Proserpina, Genova, Museo di Palazzo Reale. Il dipinto, già presente alla mostra sulla pittura italiana del Seicento e del Settecento, tenutasi a Palazzo Pitti nel 1922, è attualmente esposto alla mostra SuperBarocco delle Scuderie del Quirinale

Italia, primi anni Quaranta del Novecento: luci e ombre

Mario Labò (1884-1961)

Nel primo Novecento, invece, Valerio Castello fu stroncato da Giuseppe De Logu, uno tra i primi storici dell’arte a interessarsi al Barocco. Egli infatti ne condannava la «negligenza» e «indisciplina nel disegno» che aveva persino fatto soprassedere Lanzi da un giudizio così negativo; e non salvava nemmeno l’intera scuola genovese:

«Egli è il tipico rappresentante della scuola genovese: tanto vario, instabile, tanto tributario per la sua formazione ad estranei, tanto fantasioso, facile, brioso, ma vuoto».

Eppure, pochi anni prima il Castello era stato presente alla mostra fiorentina della Pittura del Seicento e del Settecento del 1922 con sei opere, scelte probabilmente da Mario Labò, membro della commissione regionale per la regione Liguria. Il pittore fu sempre tra gli interessi dello storico dell’arte e architetto genovese sul quale scrisse, una ventina di anni dopo, una prima moderna biografia.

America, metà Novecento: una riscoperta firmata Suida

Non è un caso quindi che William Suida, storico dell’arte viennese di origine ebrea emigrato in America nel 1939, il 13 novembre 1948 inviasse proprio a Labò delle notizie oltreoceano sul pittore. In particolare, nella lettera includeva le fotografie di «due Valerio Castello assai grandi […] finora sconosciuti e passati sotto altri nomi». Sebbene le diapositive non siano pervenute, i quadri si identificano oggi in due soggetti particolari e poco consueti, rappresentanti l’amor sacro e profano: uno raffigura Diana e Atteone con Pan e Siringa, l’altro la Leggenda di santa Genoveffa di Brabante. Non si sa, in realtà, se siano stati concepiti insieme, certo è che a questa data si trovavano in vendita sul mercato statunitense senza essere riconosciuti come opere di Valerio Castello.

Il primo, infatti, era stato esposto alla mostra Italian Baroque Painting del 1947 sotto il nome di Luca Giordano, ma già nel 1945 Suida l’aveva ricondotto all’artista genovese. Acquistato dal collezionista americano Ralph Hubbert Norton nel 1949, si conserva oggi nell’omonimo museo da lui fondato a West Palm Beach, in Florida.

Valerio Castello, Diana e Atteone con Pan e Siringa, West Palm Beach, Norton Museum of Art

Valerio Castello, La leggenda di santa Genoveffa di Brabante, Hartford, Wadsworth Atheneum Museum

La Leggenda di santa Genoveffa di Brabante, invece, venne acquistata qualche anno dopo a New York, da un famoso antiquario in stretto contatto con Suida, Julius Weitzner, che a sua volta lo vendette a Walter Chrysler junior: proprio quel Chrysler della torre che svetta nel cielo di Manhattan. Il collegamento curioso è che, a quel tempo, curatrice della collezione Chrysler era Bertina Suida, figlia di William, la quale consigliò vivamente al magnate americano l’acquisto del quadro: il padre, certamente, dovette giocare un ruolo fondamentale in questa storia, che contribuì a far conoscere il nome di Valerio Castello in America in un momento in cui era ancora del tutto sconosciuto.

Valerio Castello oggi

«uno dei più alti esponenti di un Barocco libero e visionario»

Il giudizio sul Castello è oggi mutato, frutto anche di nuovi studi e monografie. In questi mesi, il pittore figura nella mostra SuperBarocco, definito «uno dei più alti esponenti di un Barocco libero e visionario», non solo della scuola genovese ma dell’intero ambito italiano. E proprio il quadro di Diana e Atteone con Pan e Siringa è presentato come testimonianza straordinaria dello stile maturo di Castello e delle sue «forme visionarie», titolo che dà il nome alla sezione della mostra per celebrarne le composizioni tumultuose, le forme dinamiche, la pennellata e quel colore così vibrante, già elogiato da Ratti e Lanzi ma poi stroncato da De Logu: uno dei tanti casi di mutazione di gusto sul Barocco.