Questa settimana Giulia Iseppi racconta per Barocca-mente il rapporto fra mostre e studi, attraverso la cronaca di un grande convegno italoamericano sul Barocco emiliano svoltosi a Washinton nel 1987.
Washington, 1987
Una stagione particolarmente fortunata per gli studi sull’arte bolognese ed emiliana fu quella che venne letteralmente ‘trasportata’ in America dall’Italia nella seconda metà degli anni Ottanta.
Fu una delle prime occasioni in cui gli Stati Uniti sperimentarono il felice connubio fra mostre e studi, che provocarono una decisa accelerazione nella conoscenza della pittura barocca emiliana oltreoceano.
Questa fu la portata di uno dei primi convegni internazionali sulla pittura emiliana del Seicento, dal titolo Emilian Painting of the 16th and 17th Centuries: a Symposium, che ebbe luogo a Washington nel 1987.
In quell’anno aveva aperto, prima alla National Gallery di Washington e poi al Metropolitan Museum di New York, la mostra Nell’età di Correggio e dei Carracci, inaugurata nel settembre 1986 alla Pinacoteca Nazionale di Bologna: quella storica biennale, oggetto per la prima volta di una trasferta intercontinentale, era stata curata dal direttore Andrea Emiliani, da Sidney Freedberg, curatore della National Gallery, da John Pope Hennessy, chairman per la pittura europea al MET, e da Stephen Pepper, interpellato come guest curator.
Emilianness. La prima biennale bolognese in trasferta USA
La mostra, in cui comparivano 199 dipinti, giunti da 97 collezioni pubbliche e private situate in 13 stati diversi, costituiva il primo evento che gettasse uno sguardo complessivo sulla pittura emiliana del Cinque e Seicento. Il convegno fu quindi subito concepito come un necessario corollario, poiché il catalogo dell’esposizione, al quale avevano partecipato più di quaranta studiosi da tutto il mondo, evidenziava l’assenza,, fino ad allora, di un confronto diretto fra dipinti normalmente collocati in collezioni e raccolte molto lontane fra di loro, in diversi stati. Troppo preziosa era quell’occasione per vedere vicine opere fino ad allora mai accostate.
Nel saggio introduttivo al catalogo Giuliano Briganti coniava felicemente l’espressione di “emilianità dell’arte emiliana”, o emilianness, ricucendo il percorso espositivo delle opere in mostra e spiegando il comune denominatore dello svolgimento della pittura emiliana dei due secoli, fatto di tramandi, riprese e visioni contrastanti di quella componente naturale ed espressiva che affonda le radici nel passato ‘lombardo’ e lo inserisce in un discorso più altamente comunicativo.
Incastonato, con tempistiche sapientemente indovinate, tra questa esposizione e quella, di là da venire, dedicata a Guido Reni (1988), le prime due mostre di pittura bolognese costruite fin dall’inizio su una piattaforma italoamericana, il convegno si presentava come una grande occasione di confronto e dibattito fra gli studiosi italiani e stranieri sul tema dell’emilianità.
La copertina del catalogo della mostra del 1986-87
Il promotore dell’impresa fu Henry Millon (1927-2018), principalmente noto come storico dell’architettura rinascimentale e barocca cresciuto sotto la guida di Rudolph Wittkower. Millon aveva stretto solidi rapporti con la comunità scientifica italiana fin da quando, fra il 1974 e il 1977, era stato direttore dell’American Academy a Roma. Nel 1980 aveva assunto la carica di primo direttore del Center for Advanced Study of the Visual Arts della National Gallery of Art di Washington, che venne scelto come sede del convegno.
Dal canto suo Andrea Emiliani, coordinatore delle esposizioni, non volle rinunciare a pubblicare il volume degli atti, uscito velocemente nello stesso anno, sotto la fidatissima Nuova Alfa, la casa editrice che aveva curato i cataloghi di tutte le biennali bolognesi. All’inizio il Center di Washington non aveva previsto nessuna pubblicazione ma solo un grande forum conclusivo; tuttavia, non senza problematiche di tipo economico, i curatori trovarono il sostegno congiunto della Fondazione Cesare Gnudi e della Samuel Kress Foundation, consegnando di fatto alla letteratura uno dei primi volumi in cui confluirono in modo sinottico gli studi italiani e quelli americani su alcuni problemi fondamentali di pittura emiliana di Cinque e Seicento.
Annibale Carracci, Ritratto di donna cieca, Bologna, Fondazione Carisbo
Sguardi incrociati
Al tavolo dei lavori del simposio sedettero, sotto lo sguardo moderatore di Donald Posner, i bolognesi Andrea Emiliani, Eugenio Riccòmini, Giuseppe Olmi e Anna Ottani Cavina; accanto a loro, Sydney J. Freedberg, Charles Dempsey, Elizabeth Cropper e Beverly Louise Brown, curatrice della sezione barocca di pittura alla National Gallery di Washington. Gli interventi, tutti in inglese e poi parzialmente tradotti in italiano per gli atti, permisero di incrociare ricerche e osservazioni che fino ad allora erano rimaste confinate in contesti di studio separati, allontanati dalla diversità linguistica e di impostazione metodologica.
A quanto pare, gli studiosi presero alla lettera l’idea che il tema fosse ‘the age of Correggio and the Carracci’: sebbene infatti la mostra coprisse, con le opere esposte, tutto il periodo barocco fino ai primi anni di Giuseppe Maria Crespi, il simposio si concentrò soprattutto su artisti come Correggio, Parmigianino e i Carracci. Ma l’impianto del convegno fu fondamentale per gli eventi successivi.
Il cuore del problema dell’emilianness erano i Carracci: se Emiliani ribadiva con il suo Natura e storia il link principale della rivoluzione dei cugini, Dempsey rifletteva sulla loro pittura religiosa, dando seguito, con il suo intervento, al suo saggio sulla Riforma dei Carracci che apriva la sezione su quegli artisti in mostra.
Mostre per gli studi o studi per le mostre?
Anna Ottani Cavina, con Studies from Life: Annibale Carracci’s Paintings of the Blind, gettava luce per esempio sulla serie di ritratti di donna cieca del pittore provenienti dalla collezione di Gabriele Paleotti, comparsi sul mercato a New York alla mostra Paintings from Emilia 1500-1700 (Matthiesen 1987) e ne discuteva la cronologia molto precoce avanzata da Riccòmini, che li aveva presentati.
Interventi come questi, e come quello di Giuseppe Olmi su Ulisse Aldrovandi, portavano alla ribalta davanti al pubblico americano i protagonisti della ricchissima stagione di passaggio fra Cinque e Seicento dell’arte a Bologna, strutturata sulle novità pionieristiche portate da Paleotti, Aldrovandi, Carracci e la scia dei pittori locali che sarebbero stati i principali formatori dei comprimari del Seicento.
Lo sguardo sul Cinquecento gettava uno sguardo a lunga distanza, dava sostanza storica e forniva l’approccio metodologico allo studio del Seicento bolognese. Opere sotto gli occhi del pubblico americano da molti anni, ma prive di studi specifici, come la Piccola Macelleria di Annibale (Kimbell Art Museum Forth Worth, Texas) o il Ragazzo che beve (allora proveniente dalla collezione di Peter Sharp a New York) acquisivano una solida contestualizzazione.
Annibale Carracci, Piccola macelleria, Forth Worth (TX), Kimbell Art Museum
Nessuna sorpresa che, meno di un anno dopo, il Los Angeles County Museum of Art stese i tappeti a Guido Reni.
Beverly Louise Brown ricordò la crudele necessità – davvero attuale – di avere pronti i cataloghi da sfogliare non appena la mostra apre le porte: ripercorrendo i lavori del convegno, non poteva fare a meno di notare quanto nuovo fosse lo scenario che si delineava dall’insieme degli interventi.
Con grande intelligenza critica, concludeva le due giornate con un’affermazione quasi sovversiva:
exhibition catalogues should be written after the fact, after all the pictures have been assembled.
Perché pubblicare un catalogo prima della mostra, quando due giornate hanno dimostrato di poter rispondere alle questioni aperte grazie alla visione simultanea di quelle opere?