Abile ritrattista, Pietro Antonio Rotari è oggi noto soprattutto per aver creato una galleria di cosiddette “passioni”: eleganti ritratti a mezzo busto chiamati a esprimere diversi stati d’animo. Nel caso della Russia, dove il pittore trascorse gli ultimi anni della vita, la sua influenza si è rivelata anche nel campo della critica d’arte con una complessa polemica sorta nel XX secolo. Cerchiamo di capirne le ragioni con il nuovo post di Bella Takushinova per Barocca-mente.

Da Verona a Dresda il passo è lungo

Nativo della città scaligera, Pietro Antonio Rotari (1707-1762) si istruì prima presso l’incisore fiammingo Robert van Audenaerde, apprendista, a sua volta, di Carlo Maratti nel corso di un soggiorno romano. Nel 1723 entrò nell’atelier di Antonio Balestra, già allievo di Maratti. Omnes viae Romam ducunt: dal 1727 al 1731 la formazione del giovane continuò nell’Urbe sotto la guida dell’arcade Francesco Trevisani. Ne scriveva Balestra in una lettera al noto collezionista fiorentino, mecenate e autore del corposo manoscritto Vite di pittori, Niccolò Gaburri (1676-1742):

«Colà col suo spirito e disinvolte maniere ha riscontrata la grazia di diversi porporati e primi soggetti della corte romana. Va studiando sopra quelle belle opere, anzi di presente, che si ritrova alla villeggiatura di Frascati, intendo che si sia portato a disegnar le famose opere di Domenichino a Grotta Ferrata».

Ma forse il momento più noto della biografia giovanile di Rotari è legato al successivo soggiorno napoletano e l’apprendistato presso un altro protagonista indiscusso della scuola pittorica barocca, Francesco Solimena.

Pietro Antonio Rotari, Autoritratto, ca. 1756, San Pietroburgo, Museo Russo

Al ritorno a Verona, nel 1734, seguirono anni di committenze religiose, provenienti soprattutto dai gesuiti, assidui apprezzatori del colorito “cenericcio” e “melanconico”, per dirla con le parole dell’abate Luigi  Lanzi, delle sue pale d’altare.

Nel 1750 il conte Pietro Rotari fece il suo ingresso sulla scena internazionale. Con il soggiorno presso la corte di Dresda nacque la fama di Rotari ritrattista con decine di squisite raffigurazioni dei regnanti sassoni. Inoltre, si esercitò nella rappresentazione delle cosiddette “passioni”: espressioni degli stati d’animo ritratti a mezzo busto di soggetti prevalentemente femminili, spesso caratterizzate anche dal costume locale. Non a caso fu a Rotari che Pietro Antonio Perotti, un altro veronese allievo di Balestra, dedicò la sua Conferenza del signor Le Brun … sopra l’espressione generale e particolare delle passionitraduzione italiana del celebre studio di Charles Le Brun pubblicato postumo nel 1698.

“Passioni” eseguite da Rotari durante il suo soggiorno a Dresda (1751-1755) e oggi conservate presso la Gemäldegalerie Alte Meister

Charles Le Brun, Conference sur l’expression generale & particuliere, Amsterdam 1698

Pietro Antonio Rotari, L’incontro di Alessandro Magno e Rossane (1756) e Ritratto dell’imperatrice Elisabetta Petrovna (1756-1761), entrambi all’Ermitage

Alla corte di San Pietroburgo

Il culmine della sua fama fu raggiunto con l’invito alla corte imperiale di San Pietroburgo, dove l’artista si trasferì definitivamente nel 1756. Allo stesso anno risale la sua replica dell’Incontro di Alessandro Magno e Rossane, che aveva eseguito qualche anno prima per l’elettore di Polonia.

Eppure, anche nell’impero zarista il pittore fu maggiormente richiesto come ritrattista. Rotari fu apprezzato non solo da ben tre sovrani che si susseguirono sul trono negli ultimi sei anni della sua vita trascorsi in Russia (Elisabetta Petrovna, Pietro III e Caterina la Grande), ma contribuì anche alla formazione di alcuni futuri ritrattisti russi, tra cui Fёdor Rokotov, Dmitrij Levitskij, Ivan Argunov e Aleksej Antropov.

Alla morte dell’artista nell’agosto 1762, secondo il suo testamento, circa due decine delle sue “passioni” passarono in dono alla zarina Caterina II. Quest’ultima, a sua volta, decise di acquistare i 340 dipinti rimasti nell’atelier del pittore per 17.000 rubli. L’imperatrice decorò con essi il cosiddetto “gabinetto delle mode e delle grazie” della lussuosa reggia di Peterhof, progettata in parte da Bartolomeo Rastrelli nei pressi di San Pietroburgo e affacciante sul pittoresco Golfo di Finlandia. Col passare degli anni e la sempre crescente fama della sala decorata lungo le pareti con centinaia di volti di fanciulle sorridenti/ estasiate/ incuriosite/ addormentate in abiti tradizionali russi, sassoni, ungheresi, essa acquisì il suo nome attuale di Gabinetto Rotari.

Reggia di Peterhof e il Gabinetto Rotari

La riscoperta nel Novecento

Protagonista della Mostra del ritratto italiano,tenutasi a Palazzo Vecchio a Firenze dal marzo al luglio 1911 e curata da Ugo Ojetti, Rotari viene citato nella «Rassegna d’arte» del maggio di quell’anno «tra i nomi più splendidi» insieme a Carriera, Bellotto e Tiepolo.

La riscoperta novecentesca del pittore ebbe la sua continuazione con la Mostra della pittura italiana del Sei e del Settecento, allestita al Palazzo Pitti nel 1922. L’esposizione, curata dallo stesso Ojetti, accolse ben 8 opere di Rotari provenienti dalla collezione del conte Antonio Maria Cartolari e citate anche nel primo volume della guida d’eccezione alla mostra di Margherita Nugent: Ritratto di Elisabetta figlia di Pietro il Grande, Ritratto di Caterina II, Ritratto muliebre, Ritratto di Guerriero (Pietro il Grande?), Fanciulla con fiori d’arancio, Fanciulla con giubbetto verde, Fanciulla dolorante, Fanciulla che cuce.

Ben trent’anni dopo la mostra del 1911 che l’aveva celebrato, uscì la prima monografia in lingua italiana sull’artista scritta da Emilio Barbarini. In un articolo apparso l’anno seguente su «Emporium», Giuseppe Fiocco, auspicando la necessità di un approfondito e sistematico apparato critico della produzione del pittore, non apprezzò il contributo, avendo definito il suo autore «un vecchio professore che […] è giunto al tentativo di darsi alla critica quando per solito si raccolgon le vele, e non si comincia certo a studiare cose fin allora ignote». Ciononostante, sia il libro di Barbarini che la prima tesi in italiano sull’artista – difesa già nel 1937 presso l’Ateneo padovano dall’allieva dello stesso Fiocco e discendente di Rotari, Antonia Cartolari, – contribuirono all’interesse per il pittore che si stava affermando in Italia nei primi decenni del Novecento.

Con il catalogo La pittura a Verona tra Sei e Settecento del 1978, curato dal vicentino Licisco Magagnato – figura chiave per la riscoperta e la valorizzazione del patrimonio artistico veronese nel XX secolo –, Rotari cominciò ad assumere un sempre più consolidato peso negli studi. Nell’ultimo decennio del secolo scorso si collocano le ricerche più approfondite sull’artista, tra cui la prima monografia critica di Marco Polazzo (1990).

Il frontespizio del catalogo della mostra fiorentina e il ritratto di Elisabetta di Sassonia (ca. 1755, Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister) di Rotari ivi esposto e fotografato da Giacomo Brogi

M. Nugent, Alla Mostra della Pittura Italiana del ‘600 e ‘700: Note e Impressioni (San Casciano Val di Pesa, 1925) e la Fanciulla che cuce di Rotari

Inoltre, alla fortuna internazionale della sua eredità hanno contribuito altri studi, sia europei che d’oltreoceano. A tal proposito vanno segnalati: il catalogo del Rijksmuseum del 1999 a cura di Gregor Weber, nonché quello della Samuel H. Kress Foundation, risalente allo stesso anno.

Le ricerche citate sono alla base della rassegna veronese Il Settecento a Verona: Tiepolo, Cignaroli, Rotari, la nobiltà della pittura (2011), in cui Rotari viene esplicitamente definito “pittore della corte russa”.

Rotari e la nascita del termine “róssika”

Anni prima delle citate esposizioni fiorentine, Rotari era già stato protagonista di una serie di mostre tenutesi a San Pietroburgo. Circa una ventina di raffigurazioni degli aristocratici della metà del XVIII secolo, nonché le immancabili “passioni”, furono esposte nell’ambito della Mostra storico-artistico dei ritratti russi organizzata da Sergej Djagilev nel 1905.

Nel 1912 esse furono di nuovo al centro dell’attenzione nell’ambito della grande mostra Lomonosov e l’età dell’imperatrice Elisabetta Petrovna dedicata all’arte e alla cultura barocca in Russia alla metà del XVIII secolo. Essa fu curata da uno dei più noti critici russi del Novecento, nonché uno dei fondatori della museologia nel proprio Paese: il barone Nikolaj Wrangell, autore a sua volta dell’articolo Les artistes étrangers en Russie au XVIIIe siecle (1911). Questo studio, insieme con la mostra, diede avvio a una serie di riflessioni che qualche anno dopo sarebbero state accomunate sotto il termine “róssika”. Con esso ci si riferisce alla produzione degli artisti stranieri operanti in Russia nel XVIII secolo.

Una delle sale della mostra Lomonosov e l’età dell’imperatrice Elisabetta Petrovna (1912) e un ritratto di Rotari esposto in quell’occasione

Il fil rouge degli studi sulla róssika che attraversò tutto il XX secolo è quello del grado d’influenza esercitata dai pittori e scultori europei sui loro allievi russi. Nel caso di Rotari, primo artista italiano di fama europea chiamato a San Pietroburgo, una parte dei critici sosteneva che alcune opere, come la Cleopatra morente (1750) di Ivan Argunov (1729-1802), anticipano in un certo senso le sensuali “passioni” di Rotari. Altri hanno invece sottolineato l’indiscutibile influenza dell’artista scaligero su alcuni allievi russi, tra cui, ad esempio, Fёdor Rokotov (ca. 1735-1808). Sono discussioni che continuano tutt’oggi.

In conclusione, riportiamo due brani della critica primo-novecentesca che colgono più precisamente i caratteri della ritrattistica di Pietro Rotari. Così scriveva il citato Wrangell sulla mancanza di introspezione psicologica nei suoi ritratti:

Ivan Argunov, Cleopatra morente, 1750, Mosca, Galleria Trat’jakov

Pietro Antonio Rotari, Una ragazza con un fiore nei capelli, ca. 1760, collezione privata

«Rotari è un eccellente pittore, ma non è un ritrattista di persone vive, bensì un poeta di marionette; non è un ritrattista della natura, ma un creatore di burattini di uomini vivi. I suoi dipinti, leggeri e virtuosi, non colgono i tratti caratteriali delle persone del loro tempo, ma ci hanno trasmesso solo il sapore e il colore dell’epoca. Rotari dà vita ai suoi pupazzi umani, facendoli sorridere dolcemente, piangere sommessamente o sospirare languidamente. Egli, più di chiunque altro, ha compreso tutto il fascino marionettistico del XVIII secolo, tutta la deliberata finzione insieme con il continuo “recitare sul palcoscenico” caratteristici della gente di quell’epoca».

Alexandre Benois, a sua volta, nello spiegare l’inusuale fortuna settecentesca del ritrattista veronese, che tuttavia continua a esercitare il suo fascino anche sullo spettatore moderno, osservò:

«Al Rotari non si può negare un posto a sé stante nella storia del XVIII secolo, è pieno di grazia naturale, che conferisce alle sue opere una bellezza particolare e delicatamente sensuale».