Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, San Francesco in adorazione del crocefisso (particolare), 1649, Cattedrale di San Cetteo, Pescara
Il blog Barocca-mente ha avviato la pubblicazione di approfondimenti legati alle linee di ricerca del progetto Quale Barocco?. Oggi Vincenzo Pernice ci racconta la storia di un dipinto e di un collezionista d’eccezione.
Udine, 4 novembre 1925: nell’anniversario della vittoria della Grande guerra, i quotidiani del Regno diffondono un comunicato dal titolo Una tela del Guercino donata a Gabriele d’Annunzio. Si tratta della pala d’altare San Francesco in adorazione del crocefisso, oggi conservata a Pescara, nella Cattedrale di San Cetteo, per volere del poeta in persona. Le date, i luoghi, i protagonisti di questa vicenda sono quantomai emblematici.
Se l’uso politico di capolavori della tradizione ha antecedenti famosi, gli anni Venti chiamano in causa, nondimeno, opere adatte al nuovo contesto. Dopo un lungo oblio, il Seicento è finalmente pronto a reclamare uno spazio nelle dinamiche culturali e sociali di un’Italia in trasformazione. La storia dei passaggi di proprietà di un dipinto diventa, allora, un punto d’osservazione privilegiato per misurare la fortuna del Barocco nei primi decenni del XX secolo. Ma facciamo un passo indietro.
Per l’antico viale de l’Aurora…
Tra fine Settecento e inizio Ottocento, Guercino è un nome illustre, ammirato da letterati quali Goethe, Byron, Stendhal, madame de Staël. La stroncatura di Ruskin, a metà secolo, ne rimette in discussione il valore. Quando d’Annunzio giunge nella Capitale, nel 1881, il Barbieri non è esattamente un artista in voga. Eppure, nel suo breve ma intenso periodo romano (1621-1623), ha lasciato tante e tali tracce da non poter essere ignorato da quanti, nell’Italia umbertina, volgevano lo sguardo alle bellezze del Barocco.
Nel sonetto Nympha ludovisia, il giovane Gabriele tesse le lodi di una donna dalle fattezze raffaellesche. Il riferimento al Casino dell’Aurora rende la misura di come, nell’ambito dell’eclettismo fin de siècle, il Seicento si prestasse a operazioni di rifunzionalizzazione in chiave estetizzante. Questo componimento è stato illustrato da Onorato Carlandi per l’editio picta di Isaotta Guttadàuro (1886):
Per l’antico viale de l’Aurora,
mentre i cipressi dormono al mattino,
o nova principessa di Piombino,
tu passi; e a te d’intorno il vento odora.Vive d’intorno a te la grande flora
ludovisia crescendo a ’l sol latino,
bionda Napea di Rafael d’Urbino,
ne la beatitudine de l’ora.E le fontane vivono; e l’intensa
voluttà de la vita, a ’l tuo passare,
urge fino i cipressi alti e quieti;e te brama ed a te canta l’immensa
anima de la villa secolare,
o diletta ne’ sogni dei poeti.
Onorato Carlandi, Nympha ludovisia, illustrazione per Gabriele d’Annunzio, Isaotta Guttadàuro ed altre poesie, 1886
Nella stessa raccolta, il nome di Guercino compare nel primo verso di A F.P. Michetti, tra gli artisti che hanno contribuito a “rinnovellare” l’anima dell’amico pittore. Probabilmente d’Annunzio confonde il Barbieri con Domenichino, giacché fa riferimento a “le ninfe de ’l Guercino / seminude accorrenti ne la caccia / ove Diana da le nivee braccia / tende a la strage il grande arco divino”. Sembra a tutti gli effetti una verbalizzazione de La caccia di Diana di Zampieri. Galeotto fu il suffisso -ino? Qui conta che un rappresentante del Seicento, sia esso Guercino oppure Domenichino, è degno di figurare tra le fonti d’ispirazione di un artista contemporaneo, insieme a Tiziano e Raffaello.
Domenico Zampieri detto Domenichino, La caccia di Diana, 1616-17, Galleria Borghese, Roma
Guido Cadorin, San Francesco e il lebbroso (in una fotografia d’epoca), 1924, Vittoriale degli Italiani, Gardone Riviera (BS)
Un gran dono al gran donatore
Il tempo passa: d’Annunzio diventa scrittore di successo, eroe di guerra, comandante dell’Impresa di Fiume. Nel 1924 la città viene annessa al Regno d’Italia. Per l’occasione, il poeta è insignito del titolo di Principe di Montenevoso. L’anno seguente, nel fatidico 4 novembre, i comuni e le province della Venezia Giulia offrono “al salvatore di Fiume, all’ardito che della guerra porta le stigmate sante, questo simbolo santo del sacrificio dell’amore”, ovvero il San Francesco di Guercino, proveniente da una famiglia romana. Regista dell’operazione è Ottavio Sello, geometra della Santa Sede.
Il destinatario merita un dipinto con un soggetto ad hoc. La passione del Vate per il Poverello era nota. Il pezzo si addice quindi al Vittoriale degli Italiani, sua dimora dal 1921, già ricca di riferimenti francescani. Basti pensare che, sempre nel 1924, Guido Cadorin ottiene la commissione di un San Francesco e il lebbroso, dove il malato ha le sembianze di d’Annunzio.
Sull’autore della tela donata si riaccende l’interesse. Nel 1922, la Mostra della pittura italiana del Seicento e del Settecento aveva esposto una decina di lavori attribuiti al Barbieri. È l’alba della rivalutazione critica del Barocco, talmente repentina da consentire, nel giro di pochi anni, passaggi di proprietà scopertamente politicizzati. “Un gran dono al gran donatore?” commenta con ironia il Vate nel rispondere all’omaggio, anticipando, in maniera chissà quanto consapevole, ulteriori risvolti della biografia dell’oggetto.
Cattedrale di San Cetteo, Pescara
Io ho quel che ho donato
Il Guercino rimarrà pochi anni al Vittoriale. La Storia incalza. Nel 1927, su interessamento di d’Annunzio, Pescara diventa capoluogo di provincia. La città è in fermento. Il Vate promuove e finanzia la costruzione della Cattedrale di San Cetteo, dove troveranno riposo i resti di sua madre. L’occasione richiede, ancora, un gesto simbolico: nel 1929, complice don Pasquale Brandano, il San Francesco viene donato al tempio nascente, inaugurato nel 1933. La pala d’altare si trova tuttora lì. Molti esperti di Guercino la ritengono autografa, identificandola con il Francesco eseguito per il cardinale Savelli nel 1649. Altri hanno avanzato l’attribuzione a Benedetto Gennari junior, con conseguente postdatazione.
Per noi, interessati alla fortuna del Barocco nel Novecento, il dato essenziale è il seguente: due nomi d’eccezione, Guercino e d’Annunzio, hanno condiviso un tratto significativo di storia politica e culturale, al punto da risultare indissolubilmente congiunti, almeno in relazione a quel dipinto.
Si potrebbe pensare, con un po’ di cinismo, che nel donare un’opera a sua volta ricevuta in dono, il poeta possa essersi disfatto di una tela sgradita, aver riciclato un regalo (come si dice volgarmente), suo malgrado privando il Vittoriale di un capolavoro. Ritengo, al contrario, che l’omaggio alla città natale fosse altamente strategico. Per un uomo che ha fatto del culto di sé una ragione di vita, le conseguenze erano prevedibili. Un collezionista eccezionale può sì perdere o cedere la proprietà di un oggetto altrettanto eccezionale, ma il suo nome gli resterà associato per l’eternità. Come poteva ignorarlo il Vate? “Io ho quel che ho donato” recita uno dei suoi motti più famosi, inciso all’ingresso del Vittoriale. Allora sì, quello di Pescara è ancora, sarà sempre il Guercino di d’Annunzio.
Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, San Francesco in adorazione del crocefisso, 1649, Cattedrale di San Cetteo, Pescara