Dopo qualche assaggio sulle mostre organizzate a Bologna tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Barocca-mente vi porta alla scoperta del programma completo delle Biennali bolognesi
Un terreno fertile da cui partire
Prima dell’avvio delle Biennali di Arte Antica, serie programmatica di esposizioni che si tennero a Bologna negli anni Cinquanta e Sessanta, la città era già stata teatro di importanti mostre dedicate alla scuola locale.
Impulso determinante per queste iniziative era stata la presenza di Roberto Longhi, che dal 1934 insegnava all’Università felsinea. Proprio nel 1934 Longhi aveva dato alle stampe Officina ferrarese, testo fondativo per la rivalutazione di tutta la pittura bolognese, anche quella del tanto bistrattato Seicento. Nel 1935 Longhi contribuì alla Mostra del Settecento Bolognese, al fianco di Guido Zucchini. Alla manifestazione, in cui furono esibiti centinaia di dipinti in ben ventidue sale del Palazzo Comunale, collaborarono studiosi di grande spessore come Hermann Voss, Heinrich Bodmer, Giuseppe Fiocco, Matteo Marangoni e Federico Hermanin.
Si trattava di un terreno assai fertile, dal quale queste iniziative risorsorsero con impressionante rapidità subito dopo il secondo conflitto mondiale. Già nel 1948, Longhi coordinava l’esposizione monografica dedicata a Giuseppe Maria Crespi (1665-1747), artista definito: “il più vivo estroso, più estroso pittore bolognese tra il sei e il settecento”. La commissione esecutiva, presieduta dallo stesso Longhi, annoverava alcuni studiosi che sarebbero diventati protagonisti delle future Biennali Bolognesi: Cesare Gnudi, Gian Carlo Cavalli e Francesco Arcangeli. Ricorrendo sempre a questi validi studiosi, nel 1950 apriva la Mostra della Pittura Bolognese del Trecento, iniziativa a cui Longhi desiderava dedicarsi fin dal suo insediamento nella città felsinea e che era stata a lungo rimandata a causa della guerra. Poiché il grande studioso stava per assumere la cattedra di storia dell’arte all’Università di Firenze, l’esposizione, in un certo qual modo, concludeva il suo coinvolgimento in prima linea alle attività bolognesi. Tale mostra era però destinata a diventare il modello delle future Biennali di Arte Antica che i suoi collaboratori, in un dialogo non sempre piano con il maestro, avrebbero inaugurato di lì a qualche anno.
Copertina del catalogo della Mostra del Settecento bolognese del 1935
L’avvio con Guido Reni e i Carracci
Copertina della Mostra di Guido Reni del 1954
Rappresentare la scuola bolognese attraverso una serie di mostre era un’idea brillante ma non certo semplice da attuare. Sulla successione delle mostre che si sarebbero dovute aprire non vi era pieno accordo. Longhi era convinto che si dovesse seguire un ordine cronologico, partendo dunque da una mostra sui Carracci. E così il suo allievo Arcangeli, che meditava una mostra su Reni fin dal 1942, per celebrare il terzo centenario della morte del pittore. Tuttavia, per ragioni organizzative, l’esposizione con cui si diede avvio alle Biennali nel 1954 fu dedicata a Guido Reni. Tale iniziativa ebbe un successo senza precedenti. Ben 67.000 visitatori! Un’affluenza che motivò la proroga della chiusura prevista il 31 ottobre all’8 novembre successivo. Tra i visitatori più assidui, Giorgio Morandi, considerato da Longhi l’ “ultimo Incamminato”, tornava e ritornava a rivedere i dipinti. L’intento degli organizzatori era quello di fare apprezzare al grande pubblico il “divino” Guido, campione dell’arte del Seicento. Per raggiungere tale obiettivo essi si avvalsero di una rete internazionale, prestarono meticolosa attenzione alla pulitura dei dipinti e fecero un grande lavoro di aggiornamento bibliografico, testimoniato dalle migliaia di lire spese per il prestito di volumi, l’acquisto di fotografie, i viaggi di studiosi, come Andrea Emiliani, Gian Carlo Cavalli e Lidia Puglioli Mandelli, che reperirono il prezioso materiale di studio nel difficile scenario post-bellico.
Alla mostra dedicata a Reni seguì nel 1956 la tanto agognata mostra dedicata a Ludovico, Agostino e Annibale. Questa densissima esposizione si tenne, in linea di continuità con la precedente, nel palazzo dell’Archiginnasio e fu allestita anch’essa dal pittore e architetto Leone Pancaldi, a cui fu affidato proprio in quegli anni anche il riallestimento della Pinacoteca Nazionale. Ma, per questa seconda Biennale, il Comitato si rese conto che era necessario uno spazio maggiore per potere accogliere i prestiti, anche quelli insperati, che furono infine ottenuti. Il numero impressionante di disegni esposti costituiva in un certo senso una mostra nella mostra, tanto che figurarono in un catalogo a parte curato da Denis Mahon.
Cambio di passo: Maestri della Pittura del Seicento Emiliano
La terza biennale del 1959 segnò un cambio di passo rispetto alle due mostre precedenti e si distinse per essersi ambiziosamente prefissata “una indagine complessiva del contesto artistico locale”.
Essa raccoglieva i frutti di approfondite ricognizioni sul territorio dell’Emilia-Romagna e campagne di studio e tesi di laurea avviate negli anni Cinquanta. Lo spunto originario della mostra si deve a Francesco Arcangeli.
Lo studioso intendeva articolare nel percorso espositivo l’evoluzione dell’arte emiliana. Partendo dagli allievi dei Carracci, e in particolar modo quelli di Ludovico, la mostra avrebbe cavalcato tutto il secolo, dando spazio anche ad artisti meno noti, soprattutto tra il grande pubblico.
Lo dichiarava chiaramente Gnudi in apertura di catalogo dicendo che
le mostre dei Carracci e del Reni avrebbero trovato il loro naturale svolgimento e la loro conclusione nella illustrazione dei più importanti fenomeni scaturiti da quelle premesse.
Anche questa sfida, che sembrava più ardita, riuscì a sedurre il pubblico e la critica grazie all’indefesso lavoro sul piano scientifico in particolar modo di Arcangeli, di Carlo Volpe e Andrea Emiliani.
Dettaglio della Gloria di San Valeriano di Guido Cagnacci scelto per la copertina della Mostra dei Maestri di Pittura del Seicento emiliano del 1959
Gli anni Sessanta: l’Ideale classico e finalmente… Guercino
L’8 settembre 1962 apriva la mostra intitolata L’ideale classico del ‘600 in Italia e la pittura di paesaggio. Come la precedente puntava non tanto su singole personalità artistiche quanto su una prospettiva di raggio più ampio. L’iniziativa infatti si proponeva di dimostrare come la pittura bolognese del Seicento fosse la radice del classicismo non solo romano ma anche europeo. L’ideale classico era una strada che si opponeva o si offriva in alternativa sia al naturalismo di stampo caravaggesco sia alla esuberanza barocca. E in questa rilettura, che puntava a fugare pregiudizi e interpretazioni dispregiative che si erano susseguite per secoli, giocava un ruolo fondamentale il genere del paesaggio.
Partendo dai paesaggi di Annibale a Roma si passava a Domenichino, Francesco Albani e poi a Nicolas Poussin, a Claude Lorrain. Questa esposizione segnava sostanzialmente un traguardo importante nella riabilitazione che questa serie di mostre si prefiggevano e presto le dedicheremo un post specifico.
Ultima, grande, attesissima esposizione di questo ciclo di mostre dedicate al Seicento è dedicata a Guercino, che necessariamente ebbe quale indiscusso protagonista Denis Mahon. Gnudi aveva proposto a Mahon di curare la mostra monografica su Guercino già nel 1956 al posto di quella sui Carracci. Ma i tempi non erano maturi.
L’esposizione sul maestro centese raggiunse il record di 90.000 visitatori. Attraverso 253 disegni e ben 111 dipinti si poteva finalmente decretare una piena rivalutazione critica di Giovan Francesco Barbieri, pittore che costituiva nutrimento e ossessione di Mahon a partire dalla sua tesi di laurea. Ma per ulteriori dettagli su questa mostra seguite i nostri prossimi post!
Copertina del catalogo della Mostra del Guercino del 1968 curata da Denis Mahon
Domenichino, San Giorgio e il drago, Londra, National Gallery (una delle opere esposte alla Mostra dell’Ideale classico del 1962)