A partire da una suggestione cinematografica il post di Barocca-mente di questa settimana ci porta a conoscere Bernardo Cavallino, pittore napoletano del Seicento, e prova a rispondere a una domanda fondamentale: fu protagonista o semplice comprimario della pittura napoletana barocca?
Semi-omonimie
Nel film Grande, grosso e… Verdone (2008) c’è una scena che a nessuno storico o storica dell’arte potrà passare inosservata. Alludo all’esame universitario in cui Callisto Cagnato, odioso professore universitario di storia dell’arte medievale interpretato da Carlo Verdone stesso, testa la preparazione di uno studente interrogandolo su Pietro Cavallini, pittore e mosaicista romano vissuto tra il XIII e il XIV secolo.
Il tentativo dello studente di scusare la sua scarsa preparazione viene platealmente dileggiata da Cagnato che chiosa: “Il Cavallini un pittore minore? Ma questa è una delle battute più divertenti che abbia sentito negli ultimi tempi!”. Ebbene, più volte in questi mesi, approfondendo lo studio di un altro pittore quasi omonimo ma vissuto a Napoli nel Seicento, non ho potuto fare a meno di chiedermi: “Il Cavallino un pittore minore?”.
Carlo Verdone interpreta Callisto Cagnato in Grande, grosso e… Verdone
Francesco Guarino, San Giorgio e il drago, Napoli, Gallerie d’Italia
Cronaca di una fama annunciata
La fortuna di Bernardo Cavallino (Napoli 1616-1656) appartiene interamente al Novecento. Dopo alcuni brevi contributi, anche di Roberto Longhi, fu, ancora una volta, la mostra fiorentina del 1922 a consacrare la fama del pittore. A lui Ugo Ojetti alludeva in questi termini:
“A Napoli vedevamo nel malinconico intimo femmineo Bernardo Cavallino […] nella grazia musicale dei suoi racconti in sordina, nella carezza della sua pennellata lieve come una piuma, nel languore dei suoi azzurri che si sfanno in grigi di perla, nei suoi bruni infuocati che si spengono nel pallore dei lunghi volti pensosi, il germe, le maniere, le grazie di tutto il ‘700 napoletano, pur tanto meno fine e tanto meno sincero di lui, su fino al Bonito, al Diana, al De Mura”
In mostra, Cavallino figurava con diciassette opere e la sua personalità artistica – “tutta grazia” – doveva ancora molto al profilo biografico tracciato per lui da Bernardo de Dominici (Napoli 1683-1759), autore assai poco affidabile quando trattava di artisti vissuti nel Cinque e Seicento. Un secondo momento fondamentale per il riconoscimento del nome del pittore si ebbe proprio a Napoli in occasione della Mostra dei Tre secoli, tenutasi a Castelnuovo nel 1938 e in cui più di due sale a lui dedicate ne restituivano un primo affondo monografico. Le opere attribuitegli erano numerose, compreso un San Giorgio e il drago transitato, nel frattempo, nel repertorio di Francesco Guarino. La figura di Cavallino troverà ampio spazio anche in altre occasioni espositive – si pensi alla prima mostra monografica a lui dedicata a Cleveland, Fort Worth e Napoli nel 1984-85, tra gli argomenti principali del mio progetto – e dalla fascinazione per il pittore, certamente tra i più originali nella Napoli della prima metà del Seicento, non fu esente nemmeno Adolf Hitler.
Un Cavallino per il Fuhrer…
Infatti, la mostra appena conclusasi alle Scuderie del Quirinale, Arte liberata 1937-1947 Capolavori salvati dalla guerra, ospita nella sezione dedicata a Napoli proprio una superba pala d’altare di Cavallino che, forzando le leggi di tutela del Regno d’Italia, Hitler riuscì ad avere per sé.
Il gusto del gerarca era fortemente condizionato dagli studi di Hermann Voss, insigne studioso del barocco romano, dapprima ispettore del Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino e, in seguito, direttore della Gemäldegalerie di Dresda. Nel 1926-27, Voss aveva cercato, invano, di acquistare per i Musei statali di Berlino un’altra Santa Cecilia di Cavallino, oggi al Museum of Fine Arts di Boston.
L’eccezionalità del dipinto – tra le pochissime opere di Cavallino firmate e l’unica a essere datata – non si esaurisce nemmeno nell’esser stato forse l’unico esposto al pubblico in una chiesa, la napoletana Sant’Antonio a Portalba.
Esso mostra, in tutta evidenza, dei picchi qualitativi e una tale quantità di stimoli provenienti dai più diversi pittori attivi o le cui opere erano arrivate a Napoli alla metà degli anni Quaranta che quasi non ha paralleli con altre opere del pittore e dei suoi contemporanei.
Bernardo Cavallino, Estasi di Santa Cecilia, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte
…e il rapporto con Artemisia
Tra le relazioni più feconde con artisti coevi ci fu senz’altro quella stretta tra Bernardo e la pittrice par excellence del Seicento italiano: Artemisia Gentileschi. Proprio all’interno di un’altra mostra, Artemisia Gentileschi a Napoli, chiusasi anch’essa di recente, si è fatta luce sui diversi collaboratori di Artemisia durante i quasi trent’anni trascorsi a Napoli e, nuovamente, si è sottolineato il ruolo di primo piano che all’interno della bottega della pittrice svolse anche Bernardo Cavallino.
Il Trionfo di Galatea della National Gallery of Art di Washington D.C. rappresentava certamente la prova più lampante di questa collaborazione. Infatti, se la composizione e la figura della nereide si devono ad Artemisia, sono, tuttavia, i tritoni “i punti di maggior attrazione della Galatea statunitense”. Le fisionomie variate, i muscoli tesi, la resa dei riflessi di luce sui corpi – in particolare nel satiro col flauto in primo piano – lasciano pochi dubbi: Bernardo Cavallino non è un pittore che può essere lasciato al godimento dei soli specialisti!
Bernardo Cavallino, Il trionfo di Galatea, Washington D.C., National Gallery of Art