Tarsia, Valeriani, Peresinotti, Gradazzi… Il nuovo post di Barocca-mente è dedicato ad alcuni maestri italiani del Tardo Barocco attivi a San Pietroburgo alla metà del XVIII secolo, i cui nomi sono oggi, immeritatamente, pressoché dimenticati. Scopriamo insieme la loro storia con Bella Taksuhinova.

Destinazione: ‘Venezia del Nord’

Ma qual cosa le dirò di questa Città, di questo gran finestrone novellamente aperto nel Norte, per cui la Russia guarda in Europa? Dopo aver vogato parecchie ore, ci si apre dinanzi in un subito la scena di una Imperial città. Sontuosi edifizi sull’una, e l’altra riva del fiume, che gruppano insieme, torri con la guglia dorata, che vanno qua e là piramidando; navi, che cogli alberi e colle loro sventolanti banderuole rompono co’ casamenti, e distinguono le masse del quadro. Quello è l’Ammiragliato, ci dicono, e l’Arsenale, quella la Cittadella; la è l’Accademia, da questa parte il palagio d’inverno della Czarina. Regna qui una maniera di architettura bastarda tra la Italiana, la Francese, e la Olandese. Domina però la Olandese.

Jean-Étienne Liotard, Ritratto di Francesco Algarotti, 1745, Amsterdam, Rijksmuseum

Così, nel giugno 1739, uno dei più poliedrici intellettuali del tempo – scrittore, viaggiatore, filosofo, poeta e collezionista d’arte, il veneziano Francesco Algarotti (1712-1764) – scriveva di San Pietroburgo. Va sottolineato che la testimonianza citata si riferiva a una città la cui prima pietra era stata posata solo nel maggio del 1703. Questo ci dà un’idea della rapidità con cui avvenne la costruzione della nuova capitale del Paese, chiamata dai contemporanei la ‘Venezia del Nord’ per l’intricata rete di canali e le numerose isole. Un ritmo di costruzione così rapido sarebbe stato impensabile senza il contributo degli artigiani europei e soprattutto italiani, che iniziarono ad arrivare a San Pietroburgo in gran numero proprio negli anni del viaggio di Algarotti.

Bartolomeo Tarsia, Apollo e le nove muse su Elicona, 1750, schizzo per il soffitto della Sala da ballo del Gran Palazzo di Peterhof, San Pietroburgo, Ermitage

Maestri minori?

Gli esponenti più noti del Tardo Barocco operanti in Russia alla metà del Settecento sono ben presenti al grande pubblico: Francesco Bartolomeo Rastrelli, Pietro Rotari, Antonio Rinaldi. Tuttavia, contemporaneamente a questi artisti, una schiera di maestranze italiane ‘minori’ operò nelle regge e in innumerevoli palazzi della capitale russa. Tra questi spicca il veneziano Bartolomeo Tarsia (1690-1765), giunto a San Pietroburgo nel 1722 su invito di uno degli agenti artistici di Pietro il Grande in Italia, che scriveva dell’artista:

Ho trovato qui un pittore di medio livello, veneziano, che verrà con me solo dietro costoso mantenimento e se riceverà dai 30 ai 50 ducati d’oro farà lo sforzo di lasciare la sua casetta; non vuole nessun contratto, solo quando sarà in Russia e avrà fatto vedere il suo lavoro, sarà contento di ricevere per quel lavoro il compenso annuale, che sua maestà si degnerà di concedergli, se invece per sua disgrazia al gran signore il suo lavoro non andasse a genio, egli lavorerà per sé o se ne tornerà in patria, ma nel dipingere storie egli è maestro, soprattutto a fresco, è molto abile, per i quadri è rinomato tra i pittori di medio livello, ritratti ne ha dipinti pochi, è una persona giovane e tranquilla.

Bartolomeo era il figlio del più noto scultore Antonio Tarsia (1662-1739), autore di una serie di statue allegoriche oggi esposte nel Giardino d’Estate a San Pietroburgo. A Tarsia junior, a sua volta, si deve la decorazione delle dimore della più altolocata aristocrazia cittadina, nonché le residenze reali progettate da Rastrelli, tra cui il Gran Palazzo a Peterhof. Tarsia soggiornò a San Pietroburgo fino al 1726, tornandovi poi a più riprese, richiamato da numerose e prestigiose committenze.

Un altro nome italiano noto alla corte degli zar alla metà del Secolo dei Lumi fu quello del romano Giuseppe Valeriani (ca. 1708-1762). Esponente del Tardo Barocco, pittore, decoratore e disegnatore, impegnato anche nella scenografia teatrale, fu allievo, assieme al fratello Domenico, del paesaggista veneziano Marco Ricci (1676-1730), nipote del più noto Sebastiano (1659-1734), e maestro di Giovanni Battista Piranesi (1720-1778). Com’è noto, al pennello di Valeriani si devono alcune decorazioni della seicentesca Villa della Regina a Torino, nonché della Palazzina di caccia di Stupinigi. Giunto in Russia nel 1742 con il compositore napoletano Francesco Araja (1709-ca. 1770), cominciò a collaborare con l’immancabile Rastrelli per la decorazione delle sale del Palazzo d’Inverno, del Palazzo d’Estate (distrutto sul finire del XVIII secolo), della reggia di Tsarskoe Selo, del palazzo Stroganov e di molti altri ancora. Oltre all’insegnamento presso l’Accademia delle Scienze, Valeriani lavorò molto per i teatri di corte dell’imperatrice Elisabetta Petrovna (1709-1762).

Giuseppe Valeriani (figure) e Antonio Peresinotti (quadratura), Apoteosi dell’eroe, ca. 1755, San Pietroburgo, palazzo Stroganov

Pietro Monaco, Ritratto di Giuseppe Valeriani, ca. 1750

Giuseppe Valeriani, Apoteosi dell’eroe, ca. 1755, bozzetto per il soffitto del salone da ballo di palazzo Stroganov a San Pietroburgo, Torino, collezione privata

Giuseppe Valeriani, Schizzo di scenografia per un balletto e per un’opera, San Pietroburgo, Ermitage

A San Pietroburgo Valeriani collaborò con altri due connazionali: Antonio Peresinotti (1708-1778) e Pietro Gradazzi (ca. 1700- ca. 1770). Entrambi erano allievi del veneziano Girolamo Bona (ca. 1700-1766), impegnato in Russia dal 1735 e su invito del quale si recarono alla corte pietroburghese. Il primo, originario di Bologna, lavorò in un particolare stile Tardo Barocco con elementi rococò e fu attivo come paesaggista e vedutista, oltre a insegnare all’Accademia Imperiale delle Arti, ottenendo il titolo di accademico nel 1767. Pietro Gradazzi, a sua volta, fu originario di Verona e arrivò in Russia nel 1752 insieme col figlio Francesco (1729-1793). Vi avrebbe soggiornato per un decennio, occupandosi principalmente della pittura monumentale. Per quanto riguarda Francesco, egli rimase a San Pietroburgo fino alla fine della sua vita, avendo sostituito Valeriani in qualità di primo scenografo nel 1762.

Valeriani era rinomato per le sue grandiose scenografie prospettiche: enormi piazze con edifici fantastici e archi di trionfo, magnifiche sale decorate con colonne, rampe di scale che si addentrano nelle profondità. Le sue opere producevano un’impressione indelebile sul pubblico e deliziavano anche gli spettatori più sofisticati. Il contemporaneo di Valeriani, incisore, medagliere e ‘maestro di fuochi d’artificio’ Jacob von Stäehlin scriveva:

I suoi dipinti teatrali, o le cosiddette decorazioni sceniche, riuscivano a ingannare incredibilmente gli occhi del pubblico ed erano valutati dagli intenditori quasi pari alle scenografie del grande Bibbiena.

Antonio Peresinotti, Pietro Gradazzi, Ivan Bel’skij, Olimpo, Peterhof, palazzo di Caterina, terza anticamera

Ricostruire un’epoca “irrimediabilmente scomparsa”

Il contributo dei maestri italiani appena citati avrebbe ricevuto la dovuta attenzione dalla critica solo nel primo decennio del Novecento con il crescente interesse per il patrimonio barocco e rococò in Russia. Quest’ultimo fu innescato, a sua volta, dall’attività dell’associazione artistica Il Mondo dell’Arte, tra cui membri troviamo esponenti dell’estetismo fin de siècle, del Decadentismo e del Simbolismo.

Nel 1911 uno dei giovani critici più promettenti di allora, Nikolaj Wrangell, pubblicò un ampio saggio dal titolo Les artistes étrangers en Russie au XVIIIe siecle, in cui analizzò il contributo delle maestranze europee allo sviluppo dell’arte in Russia nel Settecento. Ecco quanto scrisse sugli artisti italiani:

Antonio Peresinotti, Rovine di architetture antiche vicino al porto, 1770, Mosca, Galleria Tret’jakov

Il XVIII secolo vide l’ultimo bagliore dell’arte in Italia. Tiepolo nel campo della decorazione, Pietro Longhi come scrittore casalingo di feste allegre, Bellotto, Canaletto, Guardi come poeti della natura e Ghislandi come cantore dell’uomo: in loro è unito un intero mondo di sentimenti della passata grandezza di un Paese morente. Era naturale che tutta l’Europa volesse che i pittori italiani raccontassero agli altri Paesi le loro magiche visioni. Da qui si capisce con quale avidità i satrapi russi, semi-orientali, iniziarono a costruire palazzi e case, abbellendoli con i sogni decorativi degli italiani o dei loro imitatori. Ma l’arte italiana nascondeva già in sé la morte, sapeva già di decadenza. E così, dopo aver illuminato il mondo intero con il suo ultimo raggio, quest’arte si spense e non godette ulteriore sviluppo. Tuttavia, la creazione degli italiani nel XVIII secolo è ancora una deliziosa ghirlanda, tessuta con i colori sbiaditi di un’epoca irrimediabilmente scomparsa. […] Molti decoratori italiani lavoravano in Russia in quegli anni: Bartolomeo Tarsia, Girolamo Bona, Gradazzi, padre e figlio; Valeriani e Peresinotti.  Pare che Valeriani avesse molti allievi e il suo nome compre costantemente nella storia dei nostri palazzi, così sontuosamente decorati in quegli anni. Per quanto riguarda Peresinotti, è un tipico rappresentante di una pittura che non ritrae mai la natura in uno stato di fioritura. Rovine semidistrutte, frammenti di muri di marmo, alberi privi di fogliame, sono gli oggetti di scena con cui sono composti i suoi paesaggi. Da queste composizioni traspare la triste malinconia di un’epoca che sta scomparendo. Peresinotti, seguace di Demachy e Hubert Robert, era quasi un pittore artigianale che dipingeva in modo lento, cupo e incerto. Tuttavia, insieme a Valeriani, formò alcuni maestri che per molti aspetti superarono i loro precettori.

I colleghi di Wrangell, membri dell’associazione Il Mondo dell’Arte, furono seriamente impegnati nella ricostruzione ‘filologica’ delle decorazioni delle residenze reali settecentesche. Così, nel 1910, Alexandre Benois, critico artistico e futuro scenografo della Scala, pubblicò una sfarzosa edizione dedicata all’epoca di Elisabetta di Russia e, in particolare, alla sua reggia di Tsarskoe Selo (“il villaggio degli zar”). In essa troviamo alcune fotografie dei soffitti delle sale del palazzo, eseguiti da Pietro Gradazzi e Antonio Peresinotti: pregevoli testimonianze di un ormai lontano passato, che da lì a poco sarebbero quasi irrevocabilmente scomparse.

Gli eventi bellici della prima metà del XX secolo cancellarono gran parte di questo patrimonio, che tuttavia continuò ad attirare l’attenzione degli storici dell’arte sovietici, come testimoniano alcune monografie sui ‘decoratori-scenografi’ italiani apparse in Russia a partire dagli anni Quaranta. Nel secondo Novecento, queste ricerche, basate sugli studi dei primi del secolo, diedero avvio a restauri su larga scala delle opere dei nostri protagonisti, il cui patrimonio gode oggi di una ‘seconda vita’.

Fotografie dei particolari dei soffitti eseguiti da Antonio Peresinotti nella reggia di Tsarskoe Selo, pubblicate da A. Benois, 1910

M.S. Konopleva, Il pittore teatrale: Giuseppe Valeriani, Leningrado 1948

Pietro e Francesco Gradazzi, Trionfo di Bacco e Arianna (Gran Palazzo di Caterina a Tsarskoe Selo) in una foto del 1940 e il dipinto restaurato

Disegni degli scenografi italiani, catalogo della mostra (Leningrado, Ermitage, 1975)

Fotografie dei particolari del soffitto eseguito da Bartolomeo Tarsia per la Sala da ballo del Gran Palazzo di Peterhof, distrutto nella Seconda guerra mondiale, 1929

I restauratori V. Korban e V. Nikiforov davanti al soffitto da loro restaurato della Scala d’onore del Gran Palazzo di Peterhof raffigurante il Trionfo di Aurora di Bartolomeo Tarsia (1981) e una foto recente della tela

A sinistra: Gran Sala del Palazzo di Caterina a Tsarskoe Selo nel 1945 e oggi

A destra: il soffitto restaurato della Gran Sala del Palazzo di Caterina (Giuseppe Valeriani, Trionfo della Russia, 1752-1754)