Nel nuovo post di Barocca-mente si parla di un’opera recentemente attribuita a Peter Paul Rubens, la cui storia e (s)fortuna novecentesca ci viene raccontata da Bella Takushinova.

“Una copia da Rubens”

La straordinaria produzione di Peter Paul Rubens (1577-1640), pioniere del Barocco e ricordato come il “principe dei pittori e pittore dei principi”, ha fatto sì che la sua vicenda artistica non smettesse di arricchirsi di novità. Oltre a dipinti celebratissimi sin dall’origine, come è noto ai lettori del nostro blog, la fortuna di alcune opere del maestro fiammingo rimonta solo al Novecento, la storia di altre, invece, è legata ai giorni nostri.

Pare sia il caso della Maddalena penitente con sua sorella Marta, un’opera attribuita alla mano di Rubens nel 2012. La complicata storia della tela è la seguente: con lo scoppio della Rivoluzione d’ottobre, il dipinto, facente in origine parte della collezione di Aleksandr Jakobson, noto professore dell’Accademia medico-chirurgica di San Pietroburgo, fu destinato alla vendita all’estero. Il caso volle, tuttavia, che nel 1931 il quadro, mai venduto, giungesse all’Ermitage e fosse inventariato come “una copia da Rubens”. Nel 1976, senza essere esposta o restaurata, la Maddalena fu donata al Museo delle Belle Arti della piccola città siberiana di Irbit, dove è attualmente conservata.

La protagonista dell’imponente tela (cm 180 x 152,5) è una delle prime fedeli seguaci di Cristo, testimone della sua crocifissione e sepoltura; è inoltre la prima dei discepoli a vedere Gesù risorto, che proibendo di toccarlo (Noli me tangere), ordinò alla donna di raccontare agli apostoli della sua resurrezione. Il dipinto raffigura uno degli episodi culminanti della vita della futura santa: la scena del rimprovero da parte di Marta alla sorella Maria per il suo stile di vita peccaminoso. La composizione è giocata sui contrasti: alla semplicità e alla modestia degli abiti di Marta, dietro la quale si intravede un paesaggio sereno, si contrappongono le vesti sontuose di Maddalena che, dipinta sullo sfondo di un drappo rosso fuoco, calpesta in un atto di vera penitenza uno scrigno di gioielli. Quest’ultimo, tuttavia, è affiancato da un’ampolla di mirra, un velato richiamo al perdono di cui godrà colei «che ha tanto amato».

Peter Paul Rubens (attribuito a, con aiuti di Antoon van Dyck e Jacob Jordaens), Maddalena penitente con sua sorella Marta, ca. 1618-1620, Irbit, Museo statale delle Belle Arti

Questioni di tecnica

Peter Paul Rubens, Maddalena penitente con sua sorella Marta, ca. 1620, Vienna, Kunsthistorisches Museum

Tornando alla storia del quadro, di quale “copia da Rubens” si tratta? Ad oggi è ben più nota la Maddalena penitente e sua sorella Marta del Kunsthistorisches Museum di Vienna, risalente al 1620 e facente originariamente parte della  collezione del pittore olandese Jacob de Wit. Essa entrò a far parte della pinacoteca viennese già nell’ultimo ventennio del XVIII secolo.

Le due opere si differenziano per alcuni dettagli: la Maddalena della versione viennese ha dei capelli più mossi, mentre la nostra li ha leggermente ondulati; sono del tutto diversi i volti delle donne; il drappo rosso del secondo esemplare è meno elaborato e, infine, la cassa del quadro di Vienna contiene più gioielli, seppure priva dell’ampollina. Insomma, un certo numero di  “libertà” che i semplici copisti non erano soliti concedersi.

A quanto pare, tuttavia, questa somiglianza e la superiorità qualitativa della tela viennese (evidente soprattutto nella figura di Marta), nonché lo stato disastroso dell’opera russa, spinsero gli storici dell’arte dell’Ermitage, ai primi del Novecento, a considerare il dipinto come copia dall’originale di Rubens e a trasferirlo in un piccolo museo di provincia.

Al contrario, recentemente, la Direzione di quest’ultimo, convinta della valenza straordinaria del quadro, ha effettuato una serie di complicati restauri che hanno portato a risultati importanti.

Un’analisi chimica dei pigmenti colorati della tela ha confermato l’ipotesi che il dipinto possa essere stato realizzato nell’atelier di Rubens come prima versione della tela viennese. La mano del pittore fiammingo è stata riconosciuta soprattutto nell’elaborata tecnica tipicamente rubensiana della resa degli occhi: le palpebre rossastre, la pennellata densa della sclera, “velata” da uno strato trasparente lucido chiamato ad attribuire una maggiore umidità allo sguardo dell’eroina piangente.

La pulitura del dipinto dalla contaminazione superficiale di sporco e polvere, fittamente inglobata in strati di vernici di epoche diverse, decomposte e fortemente scurite, nonché la rimozione di numerosi interventi di restauro risalenti alla fine del XVII – inizio del XVIII secolo, hanno rivelato non solo la bellezza del dipinto, ma anche numerosi e significativi graffi, tagli, abrasioni e perdite che confermano il secolare peregrinare del dipinto.

Altrettanto importante è stata la conferma della partecipazione di altri due acclamati artisti alla realizzazione del dipinto. Si tratta di Antoon van Dyck e Jacob Jordaens, all’epoca collaboratori di Rubens presso il suo celebre atelier di Anversa, fondato dopo il ritorno del maestro fiammingo dall’Italia. È noto che i due, tra i maggiori pittori cresciuti in ambito rubensiano, erano soliti occuparsi della resa delle figure.

Particolare della testa di Maddalena nel corso dei lavori di restauro

N. Gritsaj, Rubens, van Dyck & Jordaens: Les peintres flamands de l’Ermitage (Bruxelles 2011)

I risultati del restauro sono stati successivamente confermati dalla squadra dell’Ermitage (nel quale si conservano ben 22 quadri di Rubens; 24 di van Dyck e 10 di Jordaens; oltre a più di 500 tele di altri artisti fiamminghi) sotto la guida di Natalia Gritsaj, tra i maggiori studiosi contemporanei dei tre grandi artisti del Secolo d’Oro olandese.

Una storia ancora da svelare

Il soggetto trattato da Rubens acquisì una particolare rilevanza proprio nel XVII secolo, quando l’immagine della santa ricevette una nuova rilettura nell’ideologia e nell’arte della Controriforma come personificazione del sacramento della Penitenza. L’iconografia dell’opera in questione fu abbastanza diffusa nel Seicento. Basti citare la Santa Maddalena rinunciante alle vanità del mondo (1654), oggi al Louvre, di Charles Le Brun, raffigurata da questi nel momento della penitenza con un accenno decisamente più classicheggiante.

Per quanto riguarda il pittore fiammingo, egli era solito trattare il tema della penitente ricordata dai Vangeli, avendola raffigurata più volte nel corso della sua vita. Alcune delle sue protagoniste, oltre all’esemplare viennese, richiamano esplicitamente l’eroina neotestamentaria della tela in questione. Tra queste, un esempio interessante, è la Maddalena della Deposizione dalla croce (ca. 1617-1618), proveniente dalla collezione di Giuseppina Beauharnais e acquistata dall’imperatore Alessandro I nel 1815: la stessa chioma dei lunghi capelli ondulati color oro, identici lineamenti del viso con le tenere palpebre arrossate e una lacrima cadente, le somiglianti soluzioni cromatiche dell’elaborato drappeggio del tessuto dell’abito. Va ricordato che lo stesso soggetto era stato trattato da Rubens qualche anno prima per la celeberrima Deposizione di Gesù della cattedrale di Anversa.

Proprio la Maddalena della versione viennese, e dunque anche quella di Irbit, ha sempre suscitato l’ammirazione presso i collezionisti delle epoche passate. Così, ad esempio, nel XVIII e nel XIX secolo una sua copia parziale (fino al secondo Ottocento ritenuta della mano di Rubens) era fra le attrazioni principali del Palazzo Reale di Torino, allora sede di una delle più importanti collezioni di maestri olandesi in Italia.

Ancora oggi, a distanza di ben quattro secoli, la Maddalena di Rubens continua a essere un’immancabile protagonista delle aste contemporanee, sia nelle sue versioni parziali che intere.

Per quanto riguarda il nostro dipinto, la sua storia ante novecentesca è invece ancora tutta da svelare.

Peter Paul Rubens, Deposizione dalla croce, ca. 1617-1618, San Pietroburgo, Museo statale Ermitage

Particolari del dipinto del Museo di Irbit (ca. 1618-1620) e di quello dell’Ermitage (1617-1618)