Traendo spunto da un episodio particolarmente significativo perché riferito a uno degli artisti più noti di sempre, Raffaello, questa settimana Barocca-mente presenta alcuni casi in cui interventi di restauro hanno trasformato profondamente la leggibilità e, talvolta, addirittura il soggetto di opere del Seicento napoletano
Questioni d’identità e di genere (pittorico)
Nel 1916, Giulio Cantalamessa, alla direzione della Galleria Borghese, da poco acquistata dallo Stato italiano, rese pubblica su Rassegna d’arte una sua brillante intuizione. Dopo lunga osservazione del “quadro n° 371” del museo romano, lo studioso si era convinto che l’immagine rappresentata fosse nata in due momenti distinti, grazie al lavoro di due diversi artefici. Più specificamente, egli individuò più parti non pertinenti alla composizione originaria ideata dal pittore. Fino a quel momento, molti degli studi concentratisi attorno al “quadro n° 371” erano ruotati attorno alla questione attributiva: viceversa, Cantalamessa capì che quella che, già da tempo, era riconosciuta come una Santa Caterina, in virtù della ruota dentata e della palma del martirio strette tra le mani, era, in realtà, un ritratto. Anche Roberto Longhi, nel 1927, ritornò sull’argomento precisando rapporti con alcuni ritratti raffaelleschi e insistendo sulla paternità di Raffaello.
Eppure, fu solo nel 1937 che Aldo De Rinaldis, grazie ad un restauro realizzato negli anni precedenti, poté ribattezzare la “S. Caterina di Raffaele d’Urbino” come la Dama col liocorno che conosciamo oggi, confermando, con maggiori certezze, l’autografia raffaellesca. Sebbene fin dalla sua prima comparsa in un inventario Borghese dell’inizio del Settecento si facesse riferimento ad una Santa Caterina di Raffaello, proprio gli attributi del martirio furono riconosciuti come spuri rispetto al progetto originario e pure colpevoli di celare il fantastico animale allegorico. Il liocorno, attributo verginale che permette di legare la commissione del quadro ad un’unione matrimoniale, riemergeva – letteralmente – dalle pieghe di un drappeggio posticcio che lo aveva celato per più di due secoli: si alludeva, così, non più ad una principessa egiziana, ma ad una dama del Rinascimento italiano realmente esistita.
Raffaello, Santa Caterina d’Alessandria (prima del restauro del 1935), Roma, Galleria Borghese
Raffaello, Dama col Liocorno, Roma, Galleria Borghese
Riacquisite profondità
L’episodio descritto non è unico nel suo genere, infatti, assai spesso, all’occhio clinico di storici dell’arte e conoscitori vennero in soccorso indagini diagnostiche e/o successivi restauri, in grado di dare un insostituibile contributo all’avanzamento degli studi. Ad esempio, tra i quadri coinvolti nelle mostre sul Seicento napoletano degli anni Ottanta, almeno due andarono incontro a interventi che non solo resero più facilmente leggibili le scene rappresentate, ma che furono in grado di trasformarle. È piuttosto noto come il Martirio di Sant’Orsola di Michelangelo da Caravaggio, oggi nelle collezioni di Gallerie d’Italia a Napoli (negli anni Settanta, la collezione della Banca Commerciale), vi sia entrato con un’attribuzione al giovane Mattia Preti. Un importante restauro riaccese l’interesse per questo dipinto, presente sia alla mostra di Londra e Washington del 1982-83, sia alla monografica sull’artista a New York del 1985. Antonio De Mata, che aveva restaurato l’opera nel 1973, aveva provveduto a rimuovere le stuccature antiche, a rifoderare e applicare su di un nuovo telaio la tela, a reintegrare con acquerello e vernice le lacune. Nell’operazione di stacco del precedente rinfodero apparvero alcune iscrizioni che alludevano a Caravaggio e indicavano un possibile committente.
In seguito, gli studi documentari di Ferdinando Bologna e Vincenzo Pacelli e le proposte di Mina Gregori ricondussero con sicurezza l’opera alla mano di Caravaggio e ne riconobbero l’ultima opera nota, poiché realizzata a pochi mesi dalla morte, nel maggio 1610. Fu, però, solo in occasione di un ulteriore restauro, dei primi anni 2000, che, di nuovo dalle sovrabbondanti pieghe di una veste femminile, riemerse la mano in forte scorcio che si frappone tra il carnefice e la martire. La decisione di De Mata di non scoprire questo dettaglio e, addirittura, di celarne l’ombra riportata sul manto potrebbe spiegarsi con il cattivo stato di conservazione della mano stessa che poté essere risarcita solo in seguito, restituendo, al contempo, maggiore profondità alla composizione e maggiore partecipazione emotiva alla narrazione.
Caravaggio, Martirio di Sant’Orsola (prima del restauro del 2003-2004), Napoli, Gallerie d’Italia
Caravaggio, Martirio di Sant’Orsola, Napoli, Gallerie d’Italia
Da sacro a profano
In occasione di Civiltà del Seicento a Napoli (Napoli, 1984), coda, ma anche ampliamento della summenzionata mostra di Londra e Washington, transitata in forma ridotta anche a Parigi e Torino, quanto emerse da un quadro di Battistello Caracciolo fu ancora più sorprendente. In virtù della lancia e della corazza, Michael Stoughton, studioso americano addottoratosi un decennio prima con una tesi dedicata proprio al Caracciolo, aveva riconosciuto il soggetto del grande dipinto in un santo non identificato, ma che, proprio per la lancia imbracciata, poteva essere san Vito, san Rocco o san Giuliano Uccellatore. Eppure, mentre il catalogo andava ultimandosi, un approfondito restauro modificava per sempre il dipinto, permettendone una nuova e inedita lettura.
Tutta la sua parte sinistra, infatti, era stata coperta da uno spesso strato di terra bruna, asportata solo grazie al bisturi perché resistente a tutti i solventi; una graziosa figura femminile colta in un atteggiamento intimo con quella maschile era stata completamente obliterata. Anche l’angelo con la palma e la corona del martirio nella parte superiore della “pala” era il risultato di un intervento che aveva trasformato un putto che tratteneva una colomba in un cherubino con la colomba dello Spirito Santo; in questo caso, gli elementi spuri sono tuttora visibili. Indistinguibile, a causa dell’ingiallimento della vernice, era anche lo sfondo naturalistico alle spalle della figura maschile.
Il soggetto del quadro era tutt’altro che sacro, ma decisamente profano: dal 1984 vi si può riconoscere una coppia mitica di amanti, verosimilmente Venere e Adone. Com’è lecito immaginarsi, allora la personalità di Battistello era poco più che abbozzata (l’artista avrebbe potuto contare su di una monografia solo dal 1991); anche per questo, una simile aggiunta alla produzione profana dell’artista – fino a quel momento del tutto ignota – rappresentò un tassello fondamentale per ricostruirne il ruolo di primo piano occupato a Napoli tra primo e secondo quarto del Seicento, non solo nella produzione chiesastica, ma anche in quella privata e destinata a committenti raffinati che si raccoglievano attorno alle prime accademie letterarie napoletane.
Battistello Caracciolo, Santo non identificato (prima del restauro del 1983-1985), Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, fotografia pubblicata in S. Causa, Battistello Caracciolo: l’opera completa, 2000
Battistello Caracciolo, Venere e Adone, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte