Gli approfondimenti del nostro blog dedicati alla fortuna del Barocco nel Novecento si arricchiscono di un nuovo post di Massimiliano Simone sulla mostra del Settecento italiano a Venezia nel 1929.
Frontespizio del contributo di Giuseppe Fiocco La pittura veneziana alla mostra del Settecento, in “Rivista mensile della città di Venezia”, 1929
[…] Dice infatti agonizzante l’Algarotti mentre lo compongono per la veglia funebre: «Mò, capperi, me volè fare un gran bel morto! ». E il dialetto che rispecchia fino in fondo il costume, vezzeggia nel suo «xè xè» riducendola, rimpicciolendola, microscopizzandola, nei diminutivi di abitudine, ormai ogni parola: «La matina ‘na meseta; dopo pranzo ‘na basseta e la sera ‘na doneta.
È il luglio del 1929. Pronunciando un discorso infarcito di espressioni dialettali e luoghi comuni, certamente un po’ stridenti rispetto al contesto della manifestazione, il commissario di Venezia Ettore Zorzi dà il via alla grande mostra dedicata al Settecento italiano, diretta da Nino Barbantini. Il critico può avvalersi delle collaborazione di altri prestigiosi specialisti, quali Roberto Longhi, Luigi Marangoni o, ancora, Giuseppe Fiocco per la sezione dedicata alla pittura.
Se nelle intenzioni la mostra voleva celebrare l’arte italiana nel Settecento, nei fatti è a Venezia che viene concesso un ruolo di primo piano. Del resto, come afferma lo stesso Fiocco in un suo saggio pubblicato sulla Rivista mensile della città di Venezia in concomitanza con la manifestazione, «il Settecento Italiano non ha valore universale e non ha valore reale altro che fra le lagune». Bisogna poi premettere che all’epoca la continuità di Sei e Settecento non veniva contestata: il Rococò era considerato come una coda, un po’ decadente, del Barocco.
Una mostra diffusa
Le opere trovavano posto nei giardini – scelta azzeccata, data l’apertura della mostra durante la stagione estiva – e, soprattutto, venivano distribuite nelle 43 sale del “Palazzo delle Biennali”, fresco di ristrutturazione dopo gli interventi operati, l’anno precedente, da Giò Ponti, che aveva reso gli ambienti più neutri e facilmente adattabili. Proprio dietro tale scelta risiede il primo carattere di originalità dell’esposizione. Da uno come Barbantini – la cui cifra stilistica era quella di ricreare sale di ambientazione in cui si mescolassero manufatti artistici eterogenei – ci si aspetterebbe, infatti, un allestimento all’interno di un lussuoso palazzo d’epoca, uno dei tanti che affacciano sul Gran Canale. Se un simile cambiamento di rotta sembra dettato da esigenze logistiche e, soprattutto, da scelte di marketing volte a promuovere le attività manifatturiere della Laguna e i suoi esiti moderni, le aspettative non sembrano del tutto deluse: alcune sezioni trovarono effettivamente spazio nel casino Venier e a Palazzo Labia.
Il Palazzo della Biennale a Venezia
Cartolina dell’esposizione del Settecento italiano a Venezia, 1929
Ambientazioni dal sapore proustiano
Mobili, arazzi, porcellane, maioliche, vetri, vesti, stoffe, ventagli, tabacchiere, orologi, portantine, oggetti relati al teatro… Il secondo importante carattere di originalità della rassegna consiste proprio nella scelta dei pezzi da esporre, ossia nel coinvolgimento di altre forme artistiche oltre alla pittura. Contrariamente alla mostra tenutasi a Palazzo Pitti nel 1922, quella veneziana vuole, di fatto, coinvolgere l’insieme della produzione artistica del XVIII secolo e restituire un’idea di gusto che passa attraverso una degna valorizzazione delle arti applicate.
Citando un recente contributo di Francesco Messineo, Barbantini tenta di importare in Italia quel clima raffinato della Francia descritta da Marcel Proust che vuole mantenere integri questi ambienti ed evitarne la dispersione, e di portare avanti anche in Italia quella rivalutazione dell’arte Rococò che in Francia era in atto già da tempo. Si inscrive su questa scia l’apertura, nel 1936, del museo di Ca’ Rezzonico, con un’esposizione permanente dedicata all’arte veneziana settecentesca.
Salone da Ballo della Ca’ Rezzonico – Museo del Settecento Veneziano
Il Nuovo Doge e la seconda giovinezza della Serenissima
Com’era già accaduto con la rassegna fiorentina, le cartoline della mostra ci dicono che vennero applicate riduzioni sui treni per i visitatori. Ma colpiscono, soprattutto, le manifestazioni collaterali alla mostra, come la messa in scena al teatro La Fenice di alcune pièces di Goldoni e Gozzi o, ancora, la serie di conferenze tenutesi al Corso di Cultura organizzato su iniziativa dell’Istituto Veneto per le Piccole Industrie e per il Lavoro.
Se il regime fascista sembra voler sfruttare la manifestazione in un’ottica propagandistica, di rilancio economico e turistico della città, non bisogna dimenticare, soprattutto, che siamo nella Venezia del conte Giuseppe Volpi di Misurata, “Nuovo Doge” attento tanto alla rinascita economica della città e alla sua riconversione industriale, quanto alla sua dimensione culturale, quasi a volerle far rivivere quel ruolo di protagonista che aveva rivestito proprio nel Settecento, poi inesorabilmente perduto. Alla consolidata tradizione della Biennale si aggiungeranno negli anni Trenta altre importanti manifestazioni, quali il Festival della musica contemporanea, la Mostra d’arte cinematografica e il Festival del Teatro.
Cartolina dell’esposizione del Settecento italiano a Venezia, 1929