Nel nostro blog abbiamo già incontrato Giuseppe De Logu: era colui che scrisse l’introduzione sulla pittura di genere nel catalogo della mostra sulla pittura barocca del 1937. La sua figura è oggi oggetto di riscoperta e rinnovato interesse da parte della critica.
Se, in generale, il Seicento visse un lungo periodo di sfortuna, la pittura di genere e i cosiddetti pittori minori furono soggetti a una dimenticanza ancora maggiore.
Uno storico dell’arte, però, dedicò interamente i propri studi a questi filoni dell’arte italiana poco frequentati: fu Giuseppe De Logu, nato a Catania nel 1898 ma di origini sarde da parte paterna, che si perfezionò a Roma con Adolfo Venturi. Insegnò a Genova e all’Accademia di Belle Arti di Venezia, collaborando con importanti riviste del tempo, quali «L’Arte», «Emporium» e «Dedalo». Repubblicano convinto, firmò il Contromanifesto crociano schierandosi apertamente contro il regime fascista finché, nel 1933, fu costretto a lasciare l’Italia: emigrò prima a Budapest, dove tenne lezioni sull’arte barocca in Italia; poi a Vienna e in Svizzera, continuando a insegnare. Terminata la guerra, poté finalmente tornare in patria riprendendo l’insegnamento a Venezia, dove morì nel 1971.
La predilezione per la pittura di genere del Seicento
Fin da subito, i suoi studi furono caratterizzati da una precisa scelta di indirizzo. Gli anni Venti sono segnati da piccole monografie su Antonio Travi, Nicolò Barabino, il Grechetto e dagli articoli su Assereto, Valerio Castello, Bernardo Strozzi e Langetti. Gli anni Trenta poi vedono la pubblicazione di testi dal respiro più ampio, quali Pittori veneti minori del Settecento (1930), La pittura italiana del Seicento (1931) e Pittori minori liguri, lombardi, piemontesi del Seicento e del Settecento (1931). Negli anni seguenti, De Logu arrivò a pubblicare un fondamentale studio sulla Natura morta italiana (1962), mentre fu edita postuma una vasta indagine sul ritratto nella pittura italiana (1976).
Secondo lui, studiare la pittura di genere e quei pittori trascurati
permetteva di gettare luce su un vasto settore del panorama della storia dell’arte italiana prima creduto poco interessante, caratterizzato invece da libertà pittorica e, quindi, grande innovazione.
Il contributo però forse più importante per il quale De Logu è ancora oggi ricordato è la celebre riscoperta del cosiddetto Ciclo di Padernello. Vediamo di cosa si tratta.
Il Ciclo di Padernello di Giacomo Ceruti
Mentre stava raccogliendo dati e informazioni destinati allo studio sui Pittori minori liguri, lombardi, piemontesi del Seicento e del Settecento, Giuseppe De Logu ricevette una segnalazione da Fausto Lechi, discendente di un famoso collezionista bresciano del XVIII secolo, in merito ad alcuni dipinti totalmente dimenticati, allora conservati a Padernello in un castello di proprietà della famiglia Salvadego: da qui la denominazione “ciclo di Padernello”.
La serie consisteva in almeno tredici tele, con funzione di sovraporte, dedicate a scene di vita quotidiana in cui i protagonisti, raffigurati a grandezza naturale, sono calzolai, portaceste, mendicanti, filatrici e uomini che spillano il vino, dipinti da Giacomo Ceruti (1698-1767) detto il Pitocchetto. De Logu pubblicò nel volume del 1931 il ritrovamento della serie – oggi dispersa tra musei e collezioni private -, contribuendo alla riscoperta del pittore che, però, aveva già attirato l’attenzione alla mostra del 1922 di Palazzo Pitti.
Alcune tele del ciclo di Padernello
L’avvio degli studi su Giacomo Ceruti
All’esposizione fiorentina venne infatti presentato anche un dipinto tradizionalmente attribuito a Ceruti, la Lavandaia, qualche anno prima donato alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia: era l’unica opera che documentava l’attività pittorica dell’artista lombardo, allora pressoché sconosciuto.
Giacomo Ceruti, La lavandaia, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo (esposto alla mostra del 1922)
Da questa testimonianza, anche Roberto Longhi iniziò a interessarsi a Ceruti ampliandone il catalogo con nuove attribuzioni, quale il Ritratto di fanciulla con ventaglio dell’Accademia Carrara di Bergamo prima creduto di Pietro Longhi. Il dipinto poi campeggerà sulla copertina del catalogo della mostra su I pittori della realtà in Lombardia del 1953, che fu l’occasione della «vera consacrazione critica» di Giacomo Ceruti.
La segnalazione del ciclo di Padernello da parte di De Logu rimase, tuttavia, un fondamentale punto di partenza per i successivi studi che, passando per la prima monografia dell’artista curata da Mina Gregori nel 1982, continuano ancora oggi, in un momento in cui Giacomo Ceruti è ben rappresentato anche nelle mostre.