Il blog Barocca-mente torna ad occuparsi dei generi pittorici a lungo considerati “minori” con un focus sulla musica del silenzio del pittore Evaristo Baschenis. Elevati al rango di assoluti protagonisti, gli strumenti della liuteria italiana immortalati nelle sue opere contribuiscono all’apprezzamento del genere della natura morta in Italia nel corso della riscoperta novecentesca dell’arte dell’Età barocca.
Croce e delizia degli studiosi, la Mostra della pittura italiana del Seicento e del Settecento allestita da Ugo Ojetti a Palazzo Pitti nel 1922 gioca un ruolo chiave – è assodato – per la riscoperta di una nutrita schiera di artisti fino a quel momento sconosciuti o sottostimati, primo fra tutti Caravaggio. Dell’elenco fa parte anche colui che Roberto Longhi definirà qualche anno più tardi, con tono ancora un po’ sprezzante,
un sacerdote che aveva evidentemente molto tempo disponibile
e che
colloca le sue ‘miscellanee’ di oggetti al traguardo dell’immobilità, sotto la luce protratta dei pomeriggi estivi.
L’artista in questione è il bergamasco Evaristo Baschenis (1617-1677), discendente da una famiglia di pittori locali, che nella rassegna fiorentina del ’22 viene celebrato con una selezione di nove dipinti, quasi tutti provenienti da collezioni private della Lombardia, ad eccezione della Natura morta con pesci (allora assegnata a Baschenis) concessa in prestito dall’Accademia Carrara di Bergamo.
Si deve ad Alphonse-Jules Wauters la riscoperta, qualche anno prima della mostra di Palazzo Pitti, di un artista all’epoca dimenticato. A Baschenis lo storico dell’arte belga dedica nel 1908 un articolo pubblicato sulle pagine del Bulletin des Musées Royaux. Su un piede del tavolo della Natura morta con strumenti musicali, donata nello stesso anno al Musée des Beaux-Arts di Bruxelles con attribuzione a François le Maltais e passata in asta ad Amsterdam appena due anni prima, Wauters riconosce, infatti, la firma del “totalement inconnu” Baschenis e ricorda, per primo, la presenza di otto quadri del pittore nella Libreria del convento di San Giorgio Maggiore a Venezia, poi dispersi durante le requisizioni napoleoniche.
Evaristo Baschenis (già attribuita a), Natura morta con pesci, Bergamo, Accademia Carrara
Evaristo Baschenis, Natura morta con strumenti musicali, Bergamo, Accademia Carrara
Evaristo Baschenis, Ragazzo con canestra di pane e biscotti, collezione privata
Giorgio Morandi, Natura morta, Milano, collezione privata
Un sacerdote con una sola vocazione, la pittura
Sono scarse le notizie sulla vita di Baschenis: apprezzato musicista e sacerdote, il nostro si dovette dedicare ben presto alla sua reale vocazione, ossia la pittura, lavorando principalmente per una ristretta cerchia di notabili bergamaschi. Entrato in contatto con Jacques Courtois (Giacomo Cortese), detto il Borgognone, durante il soggiorno di quest’ultimo a Bergamo tra il 1647 e il 1649, Baschenis si consacra in maniera quasi esclusiva alla pittura di nature morte. Solamente qua e là fa capolino qualche presenza umana: è il caso della tela raffigurante un Ragazzo con canestra di pane o del più noto Trittico Agliardi, dove si può identificare un autoritratto del pittore intento a suonare la spinetta. Tra cibi, pentole e suppellettili, sono infatti gli strumenti musicali il soggetto privilegiato nelle sue opere, così frequente da essere quasi un feticcio. Liuti, violini, citare, arpe, spinette vengono raffigurate con una precisione tale da diventare, per gli studiosi di oggi, un’importantissima testimonianza documentaria.
E se, stando a un’informazione contenuta nell’inventario dei beni dell’artista, per lo studio di tali composizioni Baschenis si avvarrebbe di alcuni disegni di rilievo (forse sagome o manufatti di cartone volti a riproporre le forme degli strumenti musicali), ciò che colpisce dei suoi quadri è, soprattutto,
la ripresa quasi illusionistica di cose diverse, ma tutte acconciamente disposte a traguardo di una magica immobilità.
Prendendo in prestito un bellissimo aforisma di Charles Sterling contenuto nel catalogo della mostra parigina del 1959 dedicata alla natura morta, Baschenis trarrebbe dalle viole e dai liuti un’ “admirable musique plastique”, ottenuta attraverso una geometrizzazione e una sintesi operata sulle forme che tocca il trascendente. Siamo di fronte a un certo tipo di estetica che, ben lontana dall’incontrare i gusti del pubblico ottocentesco, tanto viene, invece, apprezzata e rivalutata nella prima metà del XX secolo preannunciando, oseremmo dire, il linguaggio figurativo di Giorgio Morandi o, ancora, la pittura metafisica di Giorgio de Chirico e Carlo Carrà. Non è un caso che nella mostra itinerante sulla pittura morta italiana, organizzata nel 1964, accanto al nome di Baschenis compaia, tra gli altri, proprio quello di Morandi.
“Un Vermeer nostrano”? Il pittore del silenzio e della vanitas
Proiettato nel contesto europeo dallo stesso Sterling, da Rudolf Wittkower e da Roberto Longhi, che in occasione dell’esposizione del 1953 Pittori della realtà in Lombardia non esita a porre l’accento sulle connotazioni nordiche della sua arte, tanto da definirlo un “Vermeer nostrano sacrificatosi in provincia”, che tra alti e bassi è capace di realizzare capolavori assoluti come i dipinti silenti dell’Accademia Carrara e dei Beaux-Arts di Bruxelles, si dovrà attendere il 1965 per la pubblicazione della prima monografia di Baschenis, seguita nel 1996 dall’importante esposizione allestita presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo.
Personalità artistica ancora da scoprire, Baschenis si rivela un pittore atemporale, così come lo è il silenzio delle sue composizioni o la polvere cosparsa sugli oggetti che allietarono la nostra esistenza – in taluni dipinti tolta a ditate – e sinonimo, appunto, del passaggio del tempo che si deposita immemore sulle cose. Ma forte è anche il richiamo al tema della vanitas, in un rapporto ideale con quella temperie culturale spagnola, magistralmente espressa nei bodegónes di Velázquez e Zurbarán, che in Baschenis risulta depurata di ogni fervore ascetico.