I pittori del Seicento a Napoli hanno documentato epidemie, eruzioni, rivolte e battaglie. Destinate al collezionismo privato, queste scene hanno contribuito al racconto della storia della città. Ne parliamo in questo nuovo post di Barocca-mente.


Battaglie senza eroi

Siamo insomma infelici. I tempi nostri

non producono eroi come i vetusti

Salvator Rosa, La Babilonia, 535-536

L’arte napoletana del Seicento è ricca di cronache: epidemie, rivolte, eruzioni e battaglie raccontate per immagini.

Un secolo tumultuoso ed eccezionale documentato non solo dai moniti sulle porte delle città e nelle chiese, ma anche illustrato da scene dipinte che mettono al centro la realtà popolare e che si diffondono nelle collezioni private.

Tra gli studi che hanno permesso di approfondire gli artisti napoletani che hanno narrato il Seicento trovano un posto importante quelli pioneristici di Fritz Saxl (1890-1948) su Aniello Falcone (1607-1656), che culminarono con il saggio La scena di battaglia senza eroe (1940), ripubblicato in traduzione italiana nel 2021 da Giuseppe Porzio assieme ad altri contributi dello studioso.

Saxl (che in questo caso si allontanava dal campo a lui più familiare della ricerca iconologica su astrologia e mitologia) metteva in evidenza l’importanza di Aniello Falcone per gli sviluppi delle scene di battaglia, per aver sostituito alla celebrazione dell’eroe, tipica dei precedenti modelli compositivi, una visione non gerarchica degli elementi in scena, caratterizzati da un realismo dedotto dall’esperienza delle tensioni sociali della Napoli del Seicento e che strizzava l’occhio a una committenza borghese, senza ruolo nelle campagne militari così come nelle rivolte popolari.

Fritz Saxl, Battaglie Senza Eroe. Studi Su Aniello Falcone, a cura di Giuseppe Porzio, Artem, 2021

Aniello Falcone, Scena di battaglia, olio su tela, Stoccolma, Nationalmuseum, 1630 c.

Legato a Ribera, Falcone – definito da Roberto Longhi «il Velázquez di Napoli» tenne a bottega pittori come Salvator Rosa, Micco Spadaro, Andrea de Leone e Paolo Porpora e fece del naturalismo caravaggesco una cifra da applicare agli esempi dei “bamboccianti” attivi a Roma, approdando in seguito anche a soluzioni classiciste.

Con Domenico Gargiulo, Carlo Coppola e altri era tra i maestri che Longhi nel 1950 denominava “caravaggeschi a passo ridotto”, cioè artisti che sul luminismo avevano innestato un nuovo linguaggio pittorico, laico, riducendo composizioni più ambiziose in dipinti dalle dimensioni contenute, con figure “terzine”, adatti al collezionismo privato.

Carlo Coppola, Il tribunale della Vicaria, olio su tela, Napoli, Museo di San Martino, 1650 c.

Il saggio di Raffaello Causa del 1983 La pittura a Napoli da Caravaggio a Luca Giordano sottolineava il lungo lavoro ancora da fare su questi artisti per meglio scioglierne le attribuzioni, ammettendo la difficoltà di affidare la ricostruzione storica alle opere dislocate in vari luoghi, rispetto alla più agevoli opportunità offerte dalle pitture nelle chiese. Ma il loro valore veniva pienamente riconosciuto:

«Un collezionismo, quello delle case napoletane, ampiamente documentato sia nelle carte d’archivio che dalle fonti, e che doveva essere di particolare ampiezza, impensabile oggi, dopo che secoli di dispersione hanno fatto volare via dalla città, quasi al soffio di una incontenibile tempesta, tanta parte del patrimonio antico. Questo referto si può valutare anche, a fortiori, considerando la molteplicità delle pitture “specialistiche”, che si stratificano al fianco e al di fuori della produzione di specifica commissione religiosa. […] Una pittura, questa “laica”, che dava lavoro a una fitta schiera di artisti inquadrati nelle singole specializzazioni, la pittura di battaglia, la pittura di paesaggio, quella di cronaca, degli avvenimenti storici, il quadraturismo, il vedutismo cartografico, quella di invenzione fantastica, e infine la natura morta, che a Napoli costituisce un capitolo oltremodo affollato e affascinante, sufficiente da solo a dare prestigio alla città e alla sua eredità d’arte».

Un anno dopo, nella mostra Civiltà del Seicento a Napoli i dipinti di Micco Spadaro contribuirono a delineare l’immagine della città insieme alla cartografia e ai testi descrittivi del tempo.

Il popolo nel museo della città

Nel 2016 il Museo di San Martino ha acquisito L’Eruzione del Vesuvio del 1631 di Micco Spadaro, una veduta in simultanea dall’alto, emozionante e terribile, cronaca di un episodio di natura e fede.

Domenico Gargiulo – questo il nome del pittore, figlio di un fabbricante di spade – raccontava l’avvenimento dipingendo una folla composta da tutte le classi sociali, che in processione dal duomo conduceva il busto e le ampolle del sangue di San Gennaro in direzione del vulcano, mentre in alto il santo patrono difendeva la città. Per arrivare a tale esito di rappresentazione realistica e vedutismo moderno, Micco Spadaro si era formato nella bottega di Aniello Falcone e sotto l’influenza di Viviano Codazzi, specializzandosi in paesaggi e scene cittadine affollate, attento alla realtà sociale popolare, affermandosi prevalentemente presso i collezionisti privati.

Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro, L’Eruzione del Vesuvio del 1631, olio su tela, Napoli, Museo di San Martino di Napoli, 1656-1660

L’Eruzione è oggi riunita alla altre due tele del pittore che il biografo Bernardo De Dominici vide in casa del nobile napoletano Antonio Piscicelli, La peste al Largo del Mercatello e la Rivolta di Masaniello. Con La punizione dei ladri al tempo di Masaniello e L’Uccisione di don Giuseppe Carafa, i dipinti arricchiscono la sezione Immagini e Memorie della Città di Napoli del Museo, in cui sono conservate importanti testimonianze delle vicende salienti della storia cittadina dagli Angioini all’Unità d’Italia.

Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro, La Rivolta di Masaniello del 1647, olio su tela, Napoli, Museo di San Martino, 1648-1652

Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro, Largo Mercatello a Napoli durante la peste del 1656, olio su tela, Napoli, Museo di San Martino, 1656

In seguito alle soppressioni e al passaggio allo stato della Certosa di San Martino, sulla collina del Vomero venne a comporsi il museo della documentazione iconografica della storia di Napoli «nelle sue vicende politiche, nella sua cultura, nella sua arte, nel suo costume: storia delle dinastie e delle grandi famiglie, della borghesia e delle classi popolari, dei pensatori e degli artisti, delle glorie e delle sventure», come raccontava Gino Doria, che alla metà del Novecento lo diresse. Ampliatosi nel tempo con lasciti e acquisizioni, il Museo offre scena di vita quotidiana e documenti che permettono di contestualizzare quel manuale della storia dell’arte sacra del Seicento che è la Certosa, scrigno di capolavori di artisti come Fanzago, Lanfranco, Ribera e dello stesso Gargiulo.

Se il documento storico-pittorico ha trovato spazio ben presto, resta ancora molto da dire su questi artisti.

Due recenti monografie – Aniello Falcone, il Velàzquez di Napoli (di Pierluigi Leone De Castris, 2022) e Aniello Falcone e i pittori della sua cerchia, 1625-1656 (di Nicola Spinosa, 2023) – dedicano finalmente loro la giusta attenzione, analizzandone a tutto tondo la produzione, senza riduzioni, prendendo in esame influenze, legami e novità e la capacità di attraversare i formati, i generi e i soggetti delle quotidiane battaglie.