Con questo post il blog Barocca-mente esplora gli anni del primo dopoguerra animati dall’acceso dibattito sul ruolo e la riconfigurazione dei musei, puntando l’attenzione sulla conversione della Palazzina di Caccia di Stupinigi da residenza reale a museo dell’arredamento: un esempio in ambito torinese del più ampio tentativo di restituire le testimonianze artistiche del periodo barocco in contenitori storicamente coerenti.

La Palazzina di Stupinigi, che “servira pour des bonnes et utiles choses”

Con l’augurio che l’edificio venisse ben conservato e che fosse felicemente destinato alla pubblica utilità, la regina Margherita, sul finire del 1919, prendeva congedo dalla Palazzina di caccia di Stupinigi. Per volontà di Vittorio Emanuele III, infatti, in quell’anno, era stata ceduta al Demanio dello Stato, costringendo la regina madre a separarsi dalla residenza verso cui, specialmente negli anni della vedovanza, aveva dimostrato grande affezione. Al momento dell’addio, gli ambienti già riccamente decorati dell’edificio disegnato da Filippo Juvarra – raffinata testimonianza settecentesca della committenza sabauda – apparivano gremiti di mobili, tessuti, piante, soprammobili, assecondando il gusto eclettico della sovrana che, per gli arredi, poteva pescare liberamente dalle residenze sparse sull’intero territorio nazionale.

La nuova destinazione della Palazzina fu subito chiara alla Commissione Conservatrice dei Monumenti della Provincia di Torino, presieduta dall’architetto Giovanni Chevalley, che esortava il Ministero della Pubblica Istruzione affinché l’ex-casino di caccia fosse convertito in un “Museo dell’abitazione del XVIII secolo in Piemonte, lasciando i mobili, le stoffe, le pitture e le suppellettili di carattere artistico che attualmente l’adornano e destinandovi altri oggetti di proprietà dello Stato”.

Luigi Brogi, La sala di Compagnia della regina nella Palazzina di Caccia di Stupinigi, in Le residenze di S.M. la Regina Madre d’Italia, Bergamo 1909

‘Vitalità’ dei musei nel rapporto tra contenuti e ‘cornice’

Il progetto per il nuovo museo a Stupinigi sorgeva nell’alveo di un più ampio movimento di ripensamento e critica della funzione, e della conseguente configurazione, dei musei. La devastante esperienza della guerra, le distruzioni di edifici e le spoliazioni di opere, ma anche, sul versante opposto, gli strappi e le traslazioni di affreschi, sculture e oggetti operati con l’obiettivo di metterli in sicurezza, avevano avuto un grosso impatto non solo sugli addetti ai lavori ma sulla popolazione tutta. L’immaginario collettivo, tristemente nutrito dai diversi anni di conflitto, associava i musei – ancora contraddistinti da allestimenti basati su criteri di esposizione seriali e classificatori di stampo positivistico ottocentesco – a ospedali dove ricoverare le opere in attesa di cure, a carceri in cui rinchiuderle, e persino a cimiteri dove lasciarle morire.

In questo clima, dunque, se la decisione della cessione di una parte dei beni e delle residenze della Real Casa al Demanio dello Stato rinfrancava gli animi dei sostenitori della res pubblica, i timori di un esodo degli arredi verso le sedi di ministeri e ambasciate, o la dispersione incontrollata, adombravano i pensieri di molti. La formula del museo d’arte applicata si profilava invece come una delle soluzioni migliori a cui aspirare tanto per tutelare le residenze storiche e gli arredi, quanto per invocare rinnovate modalità di coinvolgimento sociale.

Hans Tietze, Il Museo Barocco dell’Austria a Vienna, in ‘Dedalo’, IV, 9, febbraio 1924

Nello scenario internazionale si stava procedendo speditamente verso una nuova idea di museo, che sostituiva gli assiepati allestimenti ottocenteschi che non consentivano di apprezzare il valore artistico delle singole opere con delle più raffinate e oculate selezioni di dipinti, sculture e arredi inseriti in contesti stilisticamente coerenti. Il museo del Barocco installato da Hans Haberditz negli appartamenti del Belvedere di Vienna si profilava come esempio da imitare. Gli elogi spesi per esso da Hans Tietze rimbalzarono in Italia attraverso le pagine del ‘Dedalo’ di Ugo Ojetti:

Questo museo non vuole solamente mostrare dell’arte, ma essere esso stesso arte, non vuole distinguere il contenuto dalla cornice, ma fondere tutte e due in un’ideale concomitanza di tono artistico barocco. […] La condizione principale, cui raramente si soddisfa, perché un tale museo non risultasse solo una somma di molti particolari, ma una compiuta unità, consisteva nel collocarlo in un edificio del tempo, essenzialmente ben conservato.

Il Museo dell’Ammobiliamento di Stupinigi firmato Augusto Telluccini

All’esempio viennese, unitamente alla progettazione del Museo Kaiser Friedrich di Berlino operata da Wilhelm Bode e alle inizitive a Firenze (Museo Horne), Roma (Museo di Palazzo Venezia), Parigi (Musée Jacquemart-André) e Londra (Wallace Collection), si appellavano i principali attori da cui dipesero le sorti della Palazzina di Stupinigi.

Se, in maniera più generica, Lorenzo Rovere, direttore della sezione di Arte Antica dei Musei Civici di Torino, auspicava che i mobili, gli arazzi e i quadri forgiati dagli artisti piemontesi, oppure raccolti dai principi sabaudi, rimanessero nelle dimore che da sempre li custodivano, Arduino Colasanti, neo-direttore della Direzione Generale di Antichità e Belle Arti, nell’estate del 1920 invocava la costituzione a Stupinigi di “un vero museo di vita e non una collezione di cose morte, allineate in un ambiente gelido ed estraneo”.

La Palazzina di Stupinigi e il Museo d’Arte e di AmmobiliamentoOfficina Grafica Elzeviriana, Torino 1926

L’artefice della riuscita del progetto fu Augusto Telluccini, in forza alla Soprintendenza ai Monumenti di Torino, che con caparbietà portò avanti la sua idea di museo dell’arredamento, attirando i favori dell’opinione pubblica attraverso la costituzione di una ‘Società per gli Amici del Museo di Stupinigi’ e con raccolte fondi e garden parties di cui le cronache mondane davano notizia. Sebbene non gli fu possibile impedire il passaggio di proprietà all’Ordine Mauriziano, nel luglio del 1926 riuscì comunque a inaugurare ufficialmente la Palazzina con il museo che

“non ha in sé nulla di gelido e di morto” ma è “museo di storia, d’arte e di ammobiliamento piemontese, ch’è quanto a dire museo d’arte barocca”.

L’anticamera del Re della Palazzina di Caccia di Stupinigi secondo l’ordinamento di Augusto Telluccini nell’album Raccolta di Soffitti dal XVI al XIX secolo [1924]