Paola Setaro, nel post di questa settimana di Barocca-mente riprende il filo del racconto sulla natura morta inaugurato in uno dei post precedenti e ci conduce nelle delicate rappresentazioni del pittore bolognese Giorgio Morandi (1890 – 1964), intrise di rimandi ai maestri del Seicento

Testimoni dell’indicibile

Casa Morandi, Bologna

Bologna, Casa Morandi

“Com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”

Questi celebri versi di Eugenio Montale, contenuti nella raccolta Ossi di seppia, pubblicata la prima volta nel 1925, sono solo gli ultimi di un’intensa lirica in cui il poeta fa scorrere davanti ai nostri occhi una miriade di suggestioni. Gli elementi della natura che si affastellano riempiendo lo spazio ci sussurrano all’orecchio il mistero insondabile, ciò che agli umani non è dato riportare. E il pittore bolognese Giorgio Morandi, amico di Montale, questo lo sapeva bene. Le nature morte, protagoniste della sua pittura, sono ermetiche quanto i versi del poeta ligure: esistono per esprimere ciò che non si può dire.

Lo studio di Morandi, descritto dai contemporanei come un luogo monacale, si offre ancora oggi al visitatore con tre semplici oggetti sul tavolo. Sullo sfondo, un pannello dai colori tenui e un orologio con le lancette ferme ricreano quell’atmosfera metafisica e segretamente dolorosa (restituita dalle fotografie di Luigi Ghirri) che doveva sicuramente piacere molto anche a un altro amico del bolognese, Giorgio de Chirico. D’altronde era stato proprio il pittore delle Muse inquietanti ad affermare che la natura morta, come genere, avrebbe dovuto avere il solo compito di restituire la “penetrante stretta dell’aria”, comunicare la “vita silenziosa”, e non quello di conferire verosimiglianza agli oggetti rappresentati:

“La natura morta ha nella lingua tedesca e nell’inglese un altro nome, molto più bello e molto più giusto. Questo nome è: Still leben, e: Still life: “vita silenziosa”. È un quadro, infatti, che rappresenta la vita silenziosa degli oggetti e delle cose, una vita calma, senza rumori e senza movimenti, un’esistenza che si esprime per mezzo del volume, della forma, della plasticità”

Uno stile atemporale

Nato a Bologna, Giorgio Morandi realizzò quasi tutte le opere dalla sua stanza-studio in città.

Tra il 1907 e il 1913 frequentò l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Dopo un fulmineo contatto con il Futurismo italiano, nei primi anni Venti si avvicinò agli artisti Carlo Carrà e Mario Sironi, oltre che al già menzionato Giorgio de Chirico. Ma dopo questo primo interesse per la pittura metafisica, Morandi intraprese una ricerca artistica personale, esplorando in profondità il genere della natura morta e fino alla fine della sua esistenza conferì vita e bellezza agli oggetti inanimati, con uno stile che da quel momento in poi sfidò ogni tentativo di classificazione.

Chardin natura morta

 Jean Baptiste Chardin, Pipes et vases à boire, Parigi, Musée du Louvre

Morandi, Natura morta, 1936, Mamiano di Traversetolo (Parma), Fondazione Magnani-Rocca © Giorgio Morandi

Giorgio Morandi, Natura morta, Mamiano di Traversetolo (PR), Fondazione Magnani-Rocca © Giorgio Morandi

Eppure, nonostante la sua sfuggevolezza, nel percorso di Morandi c’è un dato che emerge con chiarezza: le sue nature morte, dagli anni Venti ai Sessanta, rivelano la forte influenza degli artisti dei secoli precedenti. Insieme alla passione per il francese Chardin (1699-1779), il cui dipinto Il castello di carte (1735 ca.) lo colpì particolarmente e di cui imitò la serialità, nei suoi lavori il bolognese dialogò in particolare con l’armonia di Francisco de Zurbarán (1598-1664) e Luis Egidio Meléndez (1716-1780).

Ma più di tutti amava El Greco. Nei primi anni Venti, durante una visita in casa del critico letterario Giuseppe Raimondi, Morandi fu attratto in maniera irresistibile dal dettaglio di un dipinto in un catalogo sul pittore. Esclamò con convinzione che “Nessun pittore moderno ha mai dipinto fiori come questi. Forse solo Renoir”.

Dopo quel colpo di fulmine per Morandi nulla fu come prima.

Nel solco della riscoperta del Siglo de Oro in Italia

Gli anni in cui lavorava Morandi sono gli stessi in cui l’Italia riscopriva l’importanza dei pittori spagnoli del XVII secolo. Mentre nei primi del Novecento il fiorentino Ardengo Soffici aveva ravvivato l’interesse per Zurbarán, definendolo un avanguardista, più tardi Roberto Longhi (anche lui amico di Morandi) rivolse nei suoi scritti l’attenzione su Diego Velázquez (1599-1660) e Francisco de Zurbarán.

Soprattutto, nel 1930, Longhi fu il curatore della mostra Gli antichi pittori spagnoli della collezione Contini-Bonacossi. Proprio in tale occasione, il critico sottolineava l’importanza della mostra per gli artisti contemporanei, definendo Zurbarán come “il più grande costruttore di forme attraverso la luce, dietro Caravaggio e davanti a Cézanne”.

Allora anche Morandi si voltò indietro. E così la geometria di Zurbarán, la materia di Chardin, la forza dirompente di El Greco si fusero in composizioni dal cromatismo tenue eppure incisivo, che ancora oggi riescono a suscitare l’impressione di una bellezza senza tempo.

El Greco, Immacolata Concezione (dettaglio), 1608-1613 ca., Toledo, Museo de Santa Cruz

El Greco, Immacolata Concezione (dettaglio), Toledo, Museo de Santa Cruz