In occasione del centenario del movimento surrealista (1924-2024), Barocca-mente ospita un post di Vincenzo Pernice dedicato alla rivalutazione di generi e artisti del Sei e del Settecento da parte del gruppo d’avanguardia.
“Puro automatismo psichico”. Così André Breton ha definito il Surrealismo nel manifesto pubblicato nell’ottobre del 1924, dando vita a un movimento che ambiva a restituire, mediante la letteratura e l’arte, il reale funzionamento del pensiero, superando gli schemi imposti dal razionalismo. Da qui il potenziale dei sogni e della psicanalisi nel liberare la società dalle catene del progresso tecnico-scientifico, specchio della aborrita borghesia.
I surrealisti, al contrario dei futuristi, si dichiarano eredi di una tradizione millenaria, che va dagli uomini delle caverne al più recente de Chirico. La loro riflessione sulla storia dell’arte, avvenuta in decenni di profonda revisione del canone, diventa allora una cartina di tornasole per misurare la fortuna di generi e artisti del Sei-Settecento presso la comunità dell’avanguardia storica.
Michael Maier, Matthäus Merian, Atalanta fugiens (1617), emblema I
Copertina dell’edizione italiana (Adelphi, 1991)
Il progetto de L’Art magique
Nel 1953 Breton è invitato dal Club français du livre a scrivere L’Art magique. Il volume è l’occasione per concretizzare un progetto vagheggiato sin dagli anni Trenta: una storia dell’arte rivisitata da cima a fondo dal pensiero surrealista. In vista della stesura, Breton sottopone un’inchiesta a decine di intellettuali, chiamati a esprimersi intorno al concetto di “arte magica”. Le interpretazioni si rivelano le più disparate e lo stesso Breton, coadiuvato da Gérard Legrand, faticherà nel fornire una definizione chiara e univoca. Ciò che oggi risulta più interessante del volume, pubblicato nel 1957, è in ogni caso la selezione di artisti esemplificativi del magico, garante secondo l’autore della modernità delle loro opere.
Al bando Raffaello o Michelangelo. Salvo qualche concessione a Leonardo, ne L’Art magique è semmai Paolo Uccello protagonista del Rinascimento. Il libro sancisce poi la predilezione per Hieronymus Bosch, Piero di Cosimo, Arcimboldo, personalità eccentriche la cui fortuna novecentesca deve molto alla circolazione in ambito avanguardista. E il Barocco? Breton, a dire il vero, non dà credito a periodizzazioni e a categorie critiche. Non si sofferma sulla “strana parola” (Giuliano Briganti), ciononostante presta particolare attenzione a pittori dimenticati o sottovalutati dei secoli XVII-XVIII.
Dai capolavori dell’alchimia a Watteau
Quando i surrealisti parlano di magia, alludono sì all’aspetto enigmatico di determinate composizioni, ma è bene chiarire come spesso si riferissero a opere legate all’occulto. Molti di loro si interessarono o addirittura praticarono l’alchimia. Logico, allora, attendersi un certo interesse per il Seicento, secolo abbondante di iconografia ermetica. Ne L’Art magique, per esempio, sono riprodotti degli emblemi della Atalanta fugiens (1617), opera di soggetto alchemico di Michael Maier con incisioni di Matthäus Merian. Il capolavoro di questo filone è però considerato un dipinto di Valdès Leal, in un passo utile a illuminare altresì lo stile delle argomentazioni di Breton:
Comunque, il capolavoro dell’alchimia è la tela, in apparenza pienamente ortodossa, di Valdès Leal, la celebre Finis gloriae mundi della cattedrale di Siviglia, trionfante immobilizzazione della corruzione universale, dove perfino il Nulla è costretto a mutarsi in trompe l’oeil, e dove l’arte non ha ormai altra funzione che ripercuotere la sinfonia di una valle di Giosafat interiore. “L’Ermes ignoto” invocato da Baudelaire è qui, per costruire, alle soglie della materia stellata, i “grandi sarcofagi” dove l’uomo completa la sua scomparsa in quanto uomo.
Valdés Leal, Finis gloriae mundi, Siviglia, Hospital de la Caridad
Antoine Watteau, Gilles, Parigi, Louvre
Il recupero di esperienze dall’interpretazione controversa è programmatico. Breton cita tra le opere “colpite dal discredito e immerse nell’oblio”, i dipinti di Arcimboldo, Antoine Caron e Monsù Desiderio. “Le loro ricerche formali, che finora erano state attribuite al capriccio o al desiderio di stranezza, sembrano oggi […] passibili di tutt’altra giustificazione”. Si tratta di una precoce attestazione del rinnovato interesse per il misterioso Monsù Desiderio, soprannome dietro cui si celano in realtà tre pittori (di cui almeno due francesi) attivi nella Napoli seicentesca, autori di architetture fantastiche e in rovina. Dipinti attribuiti a Desiderio campeggiano nella coedizione Phébus-Adelphi de L’Art magique del 1991, in splendide riproduzioni di grande formato.
Venendo al Settecento, Breton ha un debole per i preromantici. Merita tuttavia di essere menzionato il giudizio su Antoine Watteau. L’artista rococò non necessitava certo di un salvataggio dall’oblio, potendo anzi contare su un’ininterrotta fortuna critica amplificata dagli scrittori, da Baudelaire a Proust, passando per d’Annunzio e i Goncourt. Ma alla lettura piacevole di Watteau, storicamente considerato facile e lezioso, Breton oppone un’interpretazione meno semplicistica. Le sue tele “appaiono ordite di molti più segreti di quanto si fosse sospettato”. Restituendo le maschere della commedia dell’arte “al mistero delle loro origini folkloriche, Watteau è riuscito a far sorgere un’aurora che il Surrealismo non poteva non rivendicare a sé”. Così su Arlecchino e Pierrot aleggia lo spettro di Freud.
Monsù Desiderio (François Didier Nomé), Inferno, Besançon, Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie
Le fonti di Salvador Dalí
Le riflessioni di Breton si riverberano sulla pratica di alcuni militanti. Spicca tra tutti Salvador Dalí. Negli anni Trenta il maestro catalano aveva sviluppato il celeberrimo metodo paranoico-critico, grazie a cui realizzare illusioni ottiche e immagini multiple. Dietro la sedicente genesi inconscia, tuttavia, si ipotizzano fonti riferibili all’inganno barocco, con particolare riferimento al genere del paesaggio antropomorfo, possibile ispirazione per i volti inscritti in lande desolate. Un omaggio esplicito è invece Crâne de Zurbaran (1956), ove sei frati mercedari formano illusionisticamente i denti di un enorme teschio.
La conferma della profonda conoscenza dell’arte seicentesca da parte di Dalí giunge, del resto, dai tarocchi ideati negli anni Settanta e pubblicati in edizione limitata nel 1984. Gli arcani furono realizzati a partire da riproduzioni di opere d’arte, incluso il Carlo I di Van Dyck e una stampa popolare utilizzata come mascotte dell’edizione 2022 delle nostre borse di alti studi. Bandito dal movimento surrealista per le compromissioni col mercato (i tarocchi erano in origine destinati a un film di James Bond!), Salvador è un ponte tra Surrealismo e pop art, portando nell’immaginario collettivo del secondo Novecento una ventata di magia sospinta dalla bizzarria del Barocco.