Questa settimana ci occupiamo di uno studioso decisamente eclettico: anglista, italianista e “un po’ anche storico dell’arte”. Mario Praz è noto al grande pubblico per i saggi sul decadentismo, ma qual è stato il suo contributo alla critica delle arti visive del Seicento? Lo scopriamo nel nuovo post di Vincenzo Pernice.
Leggi il suo nome e viene in mente il libro più famoso: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (1930), punto di riferimento per gli studi sul decadentismo. Eppure Mario Praz (Roma, 1896-1982) ha condotto ricerche in diversi ambiti e discipline, incrociando come pochi cronologie e contesti geografici tra i più disparati. Accanto agli studi sull’Ottocento maledetto e sul Settecento neoclassico, sono numerosi e degni di nota i suoi contributi sul Barocco.
Fondatore dell’anglistica universitaria in Italia, Praz si è occupato di poeti europei del Seicento, cimentandosi al tempo stesso nell’interpretazione di pittori, scultori, decoratori. Giova dunque soffermarsi sui contributi in cui il professore ha affrontato questioni come schemi compositivi e il rapporto parola-immagine, offrendo al dibattito novecentesco sull’arte del XVII secolo il punto di vista di un letterato.
Mario Praz nella casa di Palazzo Primoli, Roma, anni Settanta
Emblema, impresa, epigramma, concetto
Mario ha già all’attivo Secentismo e marinismo in Inghilterra (1925) quando pubblica la raccolta di Studi sul concettismo (1934), un volume tuttora fondamentale per l’emblematica. In breve, un emblema è una figura simbolica solitamente accompagnata da un motto allo scopo di veicolare un insegnamento morale. Si tratta di un genere letterario ed editoriale sorto nel Cinquecento con Andrea Alciato, ma destinato ad ampia fortuna nell’età barocca. Il primo merito di Praz è quello di aver conferito dignità scientifica a una produzione giudicata come “trastullo” da Benedetto Croce, col quale polemizzò in diverse occasioni.
G. Ferro, Teatro d’imprese, 1623
Ma ancor più il volume, e in generale gli studi di Praz sull’argomento, si segnalano per la capacità di notare le sfumature laddove altri prediligerebbero invece classificazioni più rigide. Nel tracciare la storia dell’emblematica, egli risale ai geroglifici, passa per Francesco Petrarca, si concentra sulla produzione seicentesca dei gesuiti (H. Hugo, H. Hawans, A. Wierix, G. Stengel), per poi giungere al filone delle iconologie inaugurato da Cesare Ripa e proseguito fino al Settecento (J. Boudard, H.F. Gravelot e C.N. Cochin), secondo un approccio allora spregiudicatamente interdisciplinare. Tecnicamente un epigramma è cosa diversa da un concetto, un’allegoria da un’impresa, la parola dall’immagine. Eppure provate a sfogliare uno di quei “trastulli” del XVII secolo per mettere in crisi ogni definizione. Se esiste una cultura, un’immaginazione, una sensibilità emblematica, non può che essere ibrida, figlia dell’arte e della letteratura.
M. Praz, Il giardino dei sensi, 1975, in copertina: P.P Rubens e J. Brueghel il Vecchio, Allegoria della vista
Un letterato tra storici dell’arte
Praz appartiene a una generazione di studiosi che si esprime col saggio breve e con l’articolo di giornale, spesso confluiti in volumi tematici. Nel 1975 raccoglie ne Il giardino dei sensi i suoi studi sul Manierismo e sul Barocco. Il volume ripropone alcuni scritti sulla poesia marinista e sulla letteratura degli emblemi, ma dedica un’intera sezione all’arte del Seicento, con interventi su Bernini, Caravaggio, Guercino, Rubens, il paesaggio. Sebbene si divertisse a definirsi “un po’ anche storico dell’arte”, Praz non ha condotto vere e proprie ricerche sul campo. Fu quindi più critico che storico dell’arte. Questi saggi, pubblicati su quotidiani e riviste tra anni Quaranta e Settanta, sono occasionati dai “libri fondativi” di Bernard Berenson, Denis Mahon, Rudolf Wittkower, eppure non si risolvono in mere recensioni.
I problemi sollevati a proposito di Caravaggio e di Guercino, per esempio, sono quanto mai rilevanti: il Merisi è o non è barocco? e il Barbieri non è forse più classicheggiante? La fondatezza dei quesiti è dimostrata dal dibattito ancora aperto intorno alla questione dell’“ideale classico” nella storiografia. Praz sembra propendere per una concezione stilisticamente ampia del Barocco, in cui l’estro di Bernini convive con il naturalismo di Caravaggio e la grazia di Guercino. Forse non a caso, in questi interventi propriamente artistici, cita a più riprese William Shakespeare, l’autore che se alcuni giudicano un genio isolato, altri tendono a considerare parte integrante della civiltà del Barocco. Ancora una volta, parola e immagine si illuminano a vicenda.
La curva e la conchiglia
Lo studio congiunto delle due discipline trova una sintesi in Mnemosyne: The Parallel Between Literature and the Visual Arts (1970), patrocinato dalla National Gallery di Washington. Praz crede nello zeitgeist, lo spirito del tempo che informa le diverse espressioni di un’intera epoca, nello specifico attraverso procedimenti stilistici o schemi compositivi definiti “ductus”. Il capitolo intitolato La curva e la conchiglia nell’edizione italiana è dedicato all’analisi dei “ductus” del Barocco e del Rococò.
Secondo il critico, è possibile notare un’analogia formale tra la manipolazione della prospettiva e la tendenza all’illusionismo dell’arte e dell’architettura del Seicento da un lato, e dall’altro la proliferazione della metafora nella poesia coeva. “La Metafora tutti [gli obietti] a stretta li rinzeppa in un vocabulo: e quasi in miraculoso modo gli ti fà travedere l’uno dentro all’altro” scriveva Emanuele Tesauro a proposito della letteratura, testimoniando al tempo stesso il gusto di “mirar molti obietti per un istraforo di perspettiva” riscontrabile nei trompe l’oeil di Andrea Pozzo o nell’illuminazione drammatica di Caravaggio e di Rembrandt.
M. Praz, Mnemosyne, seconda edizione, 1975, in copertina: G. Reni, Aurora
A. Pozzo, Gloria di Sant’Ignazio, 1685, Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, Roma
Un altro paragone? Siamo nell’Adone (1623) di Giovan Battista Marino. Venere conduce il suo amato nel giardino dell’olfatto, dove Mercurio illustra fiori e profumi a profusione. Qui la figura retorica dell’accumulazione rimanda al decorativismo, all’horror vacui tipico delle allegorie di Rubens e Jan Brueghel il Vecchio:
Ciò c’han di molle i morbidi Sabei,
gl’indi fecondi o gli Arabi felici,
ciò che produr ne sanno i colli Hiblei,
le piagge Hebalie, o l’Attiche pendici,
quanto mai ne nutriste orti Panchei,
prati d’Himetto, e voi campi Corici,
con stella favorevole e benigna
tutto in quegli orti accumulò Ciprigna.
P.P. Rubens e J. Brueghel il Vecchio, Allegoria dell’olfatto, 1617-18, Museo del Prado, Madrid
Sono esempi ormai canonici, ripresi nella manualistica e nei corsi universitari. Alla luce di questa fortuna, anche se talvolta taciuta, il contributo maggiore di Praz allo studio del Barocco consiste proprio nell’essere stato pioniere del dialogo tra discipline prima confinate nei rispettivi recinti. Spiegando gli emblemi attraverso il concettismo, Bernini attraverso Shakespeare, “ti fà travedere l’uno dentro all’altro”. Di ciò gli siamo debitori.