Con il post di questa settimana di Barocca-mente, Bruno Carabellese ci propone una sua intervista ad Alvar González-Palacios, che fu tra gli organizzatori della grande mostra di Detroit e Firenze dedicata al Barocco fiorentino.
Le occasioni di un’intervista
Fin dai primi momenti in cui ho cominciato ad avvicinarmi agli argomenti della mia ricerca, mi era apparso chiaro che sarebbe stato fondamentale approfondire la mostra dedicata all’arte fiorentina Gli ultimi Medici, allestita in doppia sede a Detroit e a Firenze nel 1974. Quell’evento, infatti, fu il culmine di un interesse che stava maturando già da alcuni anni intorno alle opere del Barocco fiorentino. Allo stesso tempo, la mostra contribuì a rilanciare ulteriormente gli studi sull’argomento, tanto in Italia quanto all’estero. Tra i miei primi compiti, quindi, immaginavo ci sarebbe stato quello di approfondire la bibliografia degli studiosi che avevano contribuito a curare quell’esposizione.
Forse troppo abituato ai libri, quindi, non mi era mai passato per la mente che qualcuno di quegli stessi studiosi avrebbe forse potuto trasmettermi, con la sua viva voce, ricordi e riflessioni legate a quell’evento. Fu quindi solo grazie ai preziosi consigli e alla squisita disponibilità di un generoso mediatore che prese corpo il progetto, poco dopo realizzatosi, di incontrare il curatore di una delle sezioni in cui la mostra del 1974 si articolava. Non nascondo l’emozione, composta in egual misura di timore e soddisfazione, provata quando ho appreso della possibilità di incontrare Alvar González-Palacios. Oltre che come studioso, infatti, per chi come me ha studiato a Siena, egli è un nome annoverato tra le grandi personalità della storia dell’arte, particolarmente legato a uno dei nostri numi tutelari, il suo grande amico Luciano Bellosi.
In un tiepido pomeriggio di febbraio, sono stato quindi accolto nella sua casa romana, per presentare timidamente le mie domande all’illustre studioso.
Alvar González-Palacios, fotografia di Roberto Garver, 2023
“Cerchi di fare domande più specifiche”
Bruno Carabellese: Egregio professore, mi lasci esprimere tutta la mia gioia e gratitudine per la gentilezza dimostrata nel concedermi questo incontro. Vorrei innanzitutto farle qualche domanda di carattere generale, sperando possa aiutarmi a meglio inquadrare quale fosse l’idea di “Barocco fiorentino” che si aveva intorno agli anni Sessanta e Settanta tra Italia e America.
Alvar González-Palacios: Perché solo in America e perché solo in quel periodo? Gli studi sul Seicento fiorentino non sono cominciati allora. C’erano già state altre mostre a Londra, in Germania…
B C: Non lo metto in dubbio, ma il focus della mia ricerca sarebbe proprio sull’America, di cui mi propongo di evidenziare il ruolo di “cassa di risonanza” dell’attività collezionistica e di studio iniziata da questo lato dell’Atlantico.
A G P: D’accordo, lei ponga pure le sue domande. Come dice l’adagio: le domande non sono mai indiscrete; a volte lo sono le risposte, che mi riservo di poter negare.
Manifatture fiorentine (Giovan Battista Foggini, Leonard Van Der Vinne), Firenze, Palazzo Pitti, foto ICCD
B C: Per cominciare, vorrei chiederle se si è mai dato qualche motivazione per spiegare il ritardo che si può notare negli studi e nell’attività espositiva in America relativamente alla scuola fiorentina del Seicento, se confrontata con la fortuna che le altre coeve scuole italiane (romana, bolognese, genovese) avevano già avuto oltreoceano.
A G P: No non mi sono mai dato una motivazione e non vedo come sia possibile darsene una sensata. È semplicemente conseguenza della moda e dell’evoluzione del gusto. Lei potrebbe spiegare cos’è la moda? Io no, e non voglio nemmeno tentare di farlo. Per esempio, sicuramente a lungo le opere d’arte di età barocca più apprezzate furono quelle della scuola veneziana e anche io apprezzavo moltissimo i mobili veneziani quando ero giovane, sebbene ora li reputi meno interessanti. Hanno grande valore per la loro leggerezza, ma a guardarli bene mostrano una fattura inferiore rispetto a quella dei mobili romani o fiorentini. Anche io ho cambiato i miei gusti quindi, ma non cercherei motivazioni filosofiche per questo.
B C: Certo, ma non crede si possa fare una storia del gusto e della moda? Uno degli obiettivi della mia ricerca è proprio cercare di capire come e perché si fosse sviluppato in America un interesse per l’arte del Sei e Settecento fiorentino in quel determinato periodo storico, tra fine anni Sessanta e Settanta.
A G P: Ripeto, non posso aiutarla su questo. Cerchi di fare domande più specifiche.
B C: D’accordo, allora le chiedo se ha ricordi della prima mostra monografica sull’arte barocca fiorentina in America, quella del 1969.
A G P: Del ’69? Dove si tenne? E chi l’aveva curata?
B C: Fu allestita al MET e il catalogo fu redatto per la maggior parte da Joan Nissman, della Columbia University.
A G P: No, non ricordo quella mostra, non deve aver avuto una grande eco evidentemente.
B C: Penso di no, infatti, da quel che ho potuto capire fu una mostra piuttosto piccola, incentrata soprattutto sulla pittura della prima metà del Seicento. Posso chiederle quindi qual è il suo ricordo più antico legato a un qualche interesse internazionale per le opere del barocco fiorentino?
A G P: Lei continua a voler cercare l’origine e la causa dei fenomeni. Lasci perdere, le cose accadono a volte per caso o per motivi imperscrutabili. Posso dirle per esempio che spesso è il mercato a orientare il gusto e l’attenzione verso certe opere d’arte. La disponibilità delle opere e il loro prezzo, più o meno basso, possono indirizzare anche gli studiosi e i direttori di musei verso una certa scuola o verso un certo periodo della storia dell’arte. Per quanto riguarda i Fiorentini, posso dirle che Foggini è sempre stato apprezzato ed è sempre costato parecchio. Così anche Soldani Benzi. Ma questo non per qualche astratta motivazione, ma per un semplice dato di fatto: la grande qualità delle loro opere, specialmente in bronzo più che in marmo. I bronzisti fiorentini erano bravissimi, forse anche migliori dei romani. A Roma c’è Algardi, certo, che però è un artista inferiore a Bernini, malgrado quello che dice la Montagu.
Giovan Battista Foggini e Massimiliano Soldani Benzi, Bronzetti nelle collezioni americane (MET, Seattle Museum of Art, Fogg Art Museum)
Gli ultimi Medici, 1974
B C: Arriviamo quindi alla mostra del 1974. Lei partecipò attivamente a quell’evento. Ha ricordi legati alle fasi preliminari della sua organizzazione?
A G P: Sì, ricordo di aver partecipato alle riunioni preparatorie. Queste si tenevano a Parigi, non ricordo bene il motivo, forse perché era più comodo come luogo di incontro tra i vari membri del comitato, che venivano da diverse parti del mondo. A quelle riunioni c’erano, oltre a me, Frederick Cummings, Jennifer Montagu, Klaus Lankheit, Cristina Piacenti e soprattutto Andrew Ciechanowiecki, che ebbe un ruolo molto importante.
B C: In che senso?
Andrew Ciechanowiecki, The Telegraph, 23 dicembre 2015
A G P: Io lo definirei l’éminence grise di quella e altre imprese artistiche di quegli anni. Il suo ruolo era molto importante perché era capace di curare i rapporti tra le varie personalità coinvolte, grazie alla sua generosità e alle sue doti diplomatiche. Lui aveva studiato da diplomatico, quando da giovane viveva ancora in Polonia. Inoltre, parlava molte lingue, come spesso avviene a chi viene da paesi la cui lingua non è parlata da nessuno. Frederick Cummings per esempio non parlava l’italiano, e Andrew lo aiutava su questo. Non era un uomo ricco ma con la sua generosità e disponibilità riusciva a favorire in vario modo chi veniva a Londra, dove abitava, e aveva bisogno di supporto e consiglio. Era anche capace di appianare i conflitti che sempre sorgono quando si deve collaborare in un gruppo di lavoro.
B C: Ci furono conflitti all’interno del comitato della mostra del ’74?
A G C: Veri e propri conflitti no, ma per esempio non si può dire ci fosse simpatia tra Lankheit e Montagu.
B C: Ma questo aveva cause personali o scientifiche?
A G C: Difficile dirlo, forse tutte e due. Del resto, è facile che tra due specialisti dello stesso argomento, come erano Lankheit e Montagu per la scultura barocca, sorgano non veri e propri conflitti, ma sotterranee tensioni. I due non litigarono mai, ma sicuramente non erano amici.
B C: Tornando a Ciechanowiecki, cos’altro può dirmi del suo ruolo?
A G P: Si spese molto per l’organizzazione di quella mostra, così come anche di quella sul Settecento napoletano del 1979. Molte opere furono prestate o trovate da lui, che era un mercante e già da alcuni anni nella sua galleria di Londra trattava sculture e pitture del barocco fiorentino. Promuovendo la mostra, Andrew promuoveva anche sé stesso. Sia chiaro, lui era un uomo molto colto e teneva al valore delle iniziative culturali, ma aveva anche interesse a coltivare una clientela selezionata, fatta di studiosi, collezionisti e direttori di musei, che avrebbe così avvicinato a sé e alla sua attività di mercante d’arte.
Le arti decorative
B C: Finora mi ha delineato un quadro molto internazionale di studiosi, mercanti e collezionisti del Sei e Settecento fiorentino. Quale fu invece il ruolo degli Italiani in quella mostra?
A G C: Beh [Marco] Chiarini era uno studioso molto importante e contribuì validamente alla mostra. Ma in quella fase fu soprattutto quel gruppo di Americani, Tedeschi e Inglesi a rilanciare il barocco fiorentino. L’Italia in quell’occasione fu importante soprattutto perché contribuiva con le opere, con quelle custodite nei musei, che poterono essere in larga parte movimentate anche per l’allestimento della mostra a Detroit, e con quelle nelle chiese, che naturalmente non potevano essere spostate.
B C: Arriviamo alla sezione della mostra che le fu affidata, quella dedicata alle arti decorative. Innanzitutto, chi decise di coinvolgerla?
A G P: Furono Chiarini, Ciechanowiecki e Cristina Piacenti.
B C: Aveva già pubblicato molto su quegli specifici argomenti?
A G P: Qualcosa, ma non molto.
B C: E invece qual era lo stato degli studi sulle arti decorative fiorentine prima della mostra del ’74?
A G P: C’era già qualcosa, ma fu senza dubbio quella mostra a risvegliare l’interesse degli studiosi. C’era l’ottimo catalogo del Museo degli Argenti, di Cristina Piacenti. Poi sia Lankheit che Chiarini avevano fatto qualche scoperta, anche documentaria, sugli arredi fiorentini, ma solo a un livello piuttosto episodico. In quegli anni l’uso degli archivi non era così intensivo o addirittura compulsivo come è oggi. Spesso si doveva fare affidamento su spogli ottocenteschi, che avevano pubblicato molti documenti ma in maniera a volte imprecisa e poco affidabile.
Il museo degli argenti a Firenze, a cura di Cristina Piacenti Aschengreen, Firenze 1967.
B C: Per concludere, le vorrei chiedere quale fu l’accoglienza della mostra tra gli studiosi e presso il pubblico.
A G P: Fu buona, sia in Italia che in America.
B C: Ho letto invece una recensione di Giuliano Briganti, che espresse qualche dubbio sulla mostra.
A G P: A che proposito?
B C: Sulla “questione del Barocco”, se cioè Firenze avesse avuto o meno un’arte davvero barocca, e lui sembrava piuttosto scettico al riguardo.
A G P: Sì, quella vecchia questione, ma io non me ne sono mai occupato e non mi interessa. Non mi ha mai permesso di capire nulla di più delle opere d’arte, che è ciò che davvero mi importa, quindi non me ne sono mai occupato.
B C: D’accordo, allora io avrei concluso le mie domande, non mi resta che ringraziarla nuovamente e scusarmi se alcune delle cose che ho chiesto siano state troppo ingenue.
A G P: Grazie a lei e buon lavoro per la sua ricerca.