Ai Musei di Strada Nuova di Genova è in corso la mostra “Troppo bello per essere vero”. Copie d’autore da Rubens e Van Dyck (Palazzo Bianco, fino al 5 febbraio 2023) che presenta al pubblico, restaurate per l’occasione, le intriganti e affascinanti copie seicentesche del museo da dipinti autografi dei due grandi maestri fiamminghi. A raccontare l’esposizione nel post di questa settimana di Barocca-mente sono Raffaella Besta e Margherita Priarone, direttore e conservatore presso i Musei di Strada Nuova.
Gentildonna con bambino: a sinistra la copia eseguita dalla bottega dei Piola (Genova, Musei di Strada Nuova – Palazzo Bianco), a destra l’opera di Anton Van Dyck (Londra, National Gallery)
La pratica della ‘copia’ in una bottega del Seicento
“Troppo bello per essere vero. Autobiografia di un falsario” fu il titolo dello ‘scandaloso’ quanto esplosivo libro del noto falsario Eric Hebborn, l’artista inglese per lungo tempo residente a Roma e scomparso in circostanze non del tutto chiare nel 1996, che rivelò al mondo, nel 1994, di aver ingannato collezionisti, mercanti d’arte e persino case d’asta internazionali con i suoi dipinti e i suoi disegni spacciati e venduti con successo come originali dei più grandi maestri di ogni tempo.
Il titolo del best seller di Hebborn è parso ‘calzante’ per l’esposizione dedicata alle copie seicentesche da Rubens e da Van Dyck delle collezioni civiche genovesi che, in un tempo non lontano, furono giudicate opere autografe e come tali, nei primi anni Settanta, esposte nel percorso del museo.
Non a caso tali copie provengono dalla casa-bottega di una famiglia di artisti: i Piola, i più affermati e richiesti pittori e frescanti della Genova Barocca, che avevano raccolto tra Seicento e Settecento nel proprio atelier la più grande quadreria, nel suo genere, mai riunita in città, composta perlopiù da copie, derivazioni e varianti da composizioni di grandi maestri del XVI e XVII secolo, non solo Rubens e Van Dyck, ma Carracci, Reni, Guercino, Tiziano…
Tra i nomi più celebri di tale fucina di artisti ricordiamo il capo-bottega Domenico Piola, l’artista più in voga a Genova nella seconda metà del Seicento, suo figlio Paolo Gerolamo, suo genero Gregorio De Ferrari, la cui attività aprirà al rocaille, e il figlio di quest’ultimo, Lorenzo, che si affermerà ormai nella prima metà del XVIII secolo. Di questi pittori, e di altri che gravitarono intorno alla loro Casa, sono le copie giunte nel 1913 alle collezioni civiche genovesi, in Palazzo Bianco, per volontà dell’ultima erede della famiglia, Carlotta Ageno De Simoni: ben 160 dipinti che documentano, da un lato, il funzionamento di una bottega del XVII secolo, che faceva proprio della copia la prima palestra di apprendistato di un pittore; dall’altro rendono evidente la quantità di capolavori che si trovavano a Genova nei secoli di splendore della città e delle sue ricchissime quadrerie. Le composizioni originali, tra XIX e XX secolo, presero spesso le vie del mercato dell’arte e del collezionismo internazionale arrivando in alcuni casi, a inizio Novecento, oltreoceano, nelle sale dei più importanti musei del mondo, dove ancora oggi sono esposte. Ma la parata di copie di Casa Piola le riunisce tutte in una ideale galleria, dipinta per esercizio di pittori e non per commercio, visto che tali opere rimasero in proprietà degli eredi fino al Novecento.
Della casa dei Piola, sita in salita San Leonardo a Genova, conosciamo nel dettaglio l’aspetto alla data 1768, quando capo-bottega era Giovan Battista Piola figlio di Domenico: un prezioso inventario, infatti, ne ‘fotografa’ la disposizione di arredi e dipinti stanza per stanza, con tutte le copie in quella sede.
Inventario, o Sia Repertorio de Mobili del fu’ Sig.r Gio Batta Piola, 26 novembre 1768, Genova, Archivio Direzione Musei di Strada Nuova
“La quadreria della Casa Piola”. Le ‘copie’ inventariate e identificate da Orlando Grosso (1921)
In un primo ordinamento delle opere donate, negli anni tra le due guerre, Orlando Grosso, allora segretario specializzato dell’Ufficio Belle Arti del Comune, identificava già 23 copie da Van Dyck, rintracciandone in alcuni casi i modelli autografi: la Dama genovese della Gemäldegalerie a Berlino, il ritratto allora considerato di Ambrogio Spinola (in realtà Agostino Pallavicino), già in collezione privata inglese e oggi al J. Paul Getty Museum di Los Angeles, e altri. Non era a lui ancora nota, però, la collocazione dei Tre fanciulli De Franchi oggi alla National Gallery di Londra.
Mostra “Troppo bello per essere vero”. Copie d’autore da Rubens e Van Dyck: le copie dei due Van Dyck Anziana gentildonna di casa Spinola (Berlino, Gemäldegalerie) e Tre fanciulli De Franchi (o Balbi) (Londra, National Gallery)
Bottega dei Piola (copia da Anton Van Dyck), Tre fanciulli De Franchi (o Balbi) [particolare], Genova, Musei di Strada Nuova – Palazzo Bianco
Bottega dei Piola (copia da Tiziano, Mamiano [PR], Fondazione Magnani Rocca), Sacra Conversazione, Genova, Musei di Strada Nuova – Palazzo Bianco
Sulla “Gazzetta di Genova” del 1921 Grosso enumerava tutte le copie giunte a Palazzo Bianco:
25 di A. Carracci, 23 da Antonio Van Dyck, 19 del Reni, 14 dal Correggio, 6 dal Tiziano, 5 da Strozzi e da Maratta, per non citare quelle del Rubens, dal Procaccini, da Raffaello, dal Lanfranco, Parmigianino, Domenichino, Ribera ecc.
Più tardi, negli anni Sessanta, più puntuali studi vennero condotti da Eloisa Malagoli.
Stupisce e incuriosisce, quindi, come nel 1970, con il nuovo ordinamento del museo a Pinacoteca sotto la direzione di Caterina Marcenaro, 12 copie da Van Dyck e Rubens venissero presentate come opere autentiche, ignorando (o omettendo) la provenienza delle stesse.
Non solo, anche altri dipinti, come la copia della Sacra Conversazione di Tiziano, il cui originale era in collezione Magnani (oggi Fondazione Magnani Rocca a Mamiano, Parma), vennero presentati come autografi, e questo senza che tale ‘promozione’ dei quadri al percorso espositivo del museo venisse accompagnato da saggi o testi scientifici che rendessero ragione del cambio di attribuzione.
“Dipinti contestati: un’inchiesta ne dovrà stabilire la paternità”. Dibattiti e polemiche degli anni Settanta intorno ai ‘falsi Van Dyck’
Palazzo Bianco rimase con questo allestimento senza che nessuno sollevasse perplessità per più di un anno, dal 16 luglio del 1970 al dicembre del 1971, quando, in un articolo su “Il Secolo XIX”, il giovane critico Camillo Manzitti, allora collaboratore della rivista Paragone, fece scoppiare la “bomba” – come verrà poi definita la polemica dalla stampa di quegli anni – rivelando la provenienza dei dipinti di Casa Piola e ricordando le approfondite ricerche di Orlando Grosso sull’argomento: i “Dodici quadri famosi sarebbero soltanto copie […] si dà il caso che delle dodici «scoperte» di Palazzo Bianco, ben cinque siano ritratti, e di tutti e cinque notissimi agli studiosi gli originali”.
La risposta di Marcenaro a tali accuse non sarà mai argomentata sul piano scientifico, ma sarà piuttosto una difesa sul piano emotivo, riferendo di “quel fiorire d’odio” che “succede, specialmente a Genova…il perché non lo so dire”. L’allora direttrice del museo replicherà solo di aver condotto uno studio approfondito, messa sull’avviso da “una studiosa belga specializzata nella conoscenza del Van Dyck” e dal signor Magnani, proprietario della menzionata Sacra Conversazione di Tiziano, che avrebbe ritenuto il dipinto delle civiche collezioni addirittura “molto più bello” del proprio, tanto da farlo addirittura preoccupare dell’originalità di quest’ultimo! “E’ stato tranquillizzato – riferisce la Marcenaro – : l’opera di Genova è giovanile, quella di Reggio più tarda, entrambe sono di Tiziano”!
Articoli di giornale intorno alla polemica sui ‘falsi Van Dyck’ di Palazzo Bianco (anno 1971)
La difesa dell’amministrazione civica nei confronti dell’esposizione di Palazzo Bianco continuò per anni, nonostante molti altri studiosi oltre a Manzitti – tra gli altri, Ezia Gavazza, docente di storia dell’arte e allora consigliere comunale di opposizione, Gianvittorio Castelnovi, sovrintendente alle Gallerie e ai musei della Liguria, Corrado Maltese, titolare della cattedra universitaria di Storia dell’Arte – stigmatizzassero e ironizzassero sulle argomentazioni di Caterina Marcenaro.
Solo nel 1977 verranno ufficialmente messi in dubbio i ‘nuovi Van Dyck’, prima sofisticando sulle terminologie – repliche, diverse versioni… per non parlare apertamente di falsificazioni – poi, e siamo ormai negli anni Ottanta, facendo seguire le altisonanti attribuzioni da un pudico e interlocutorio punto interrogativo.
Oggi tali opere – cui la mostra-dossier in corso nelle sale espositive di Palazzo Bianco è dedicata – sono di norma conservate nei depositi del museo, nella cosiddetta ‘Galleria Secondaria’: uno spazio riallestito e reso visitabile da Franco Albini nel secondo dopoguerra. Qui questi grandi quadri fanno bella mostra di sé documentando tante vicende intrecciate fra loro: collezionismo, pratiche di bottega, gestione del patrimonio artistico, fino alla curiosa cronaca, non lontana nel tempo e sempre attuale, di una querelle attributiva di natura squisitamente storico-artistica che, combattuta a colpi di articoli di giornale e di commissioni e inchieste del Consiglio Comunale, diventa presto di dominio pubblico, assumendo facilmente una coloritura diversa, di natura politica e di scontro di divergenti orizzonti culturali.