Quando la filosofia incontra l’arte. Paola Setaro, nel post di Barocca-mente di questa settimana, ci racconta di José Ortega y Gasset (1883-1955) e delle sue riflessioni su Velázquez

La vocazione esistenziale di Velázquez

José Ortega y Gasset, 1948

José Ortega y Gasset, 1948

“Io sono io e la mia circostanza”, vale a dire che noi siamo quello che siamo grazie anche a quello che non abbiamo scelto. Ma è proprio grazie alle circostanze esterne che possiamo costruire la nostra prospettiva, quindi la realtà. L’espressione, contenuta nelle Meditaciones del Quijote (1914), condensa il pensiero di José Ortega y Gasset sull’uomo e sul suo inevitabile rapportarsi con ciò che lo circonda.

Professore di metafisica all’Università Complutense di Madrid e celebre anche per la sua chiarezza di scrittura, il filosofo spagnolo applica questa griglia interpretativa anche quando si concentra sulla biografia di Velázquez, oggetto dei suoi interessi già a partire dal 1916, in un momento in cui  in Spagna l’attenzione per l’artista sivigliano non è ancora molto viva. Il cuore delle sue riflessioni sul pittore si sviluppa a partire dagli anni Quaranta, quando Ortega vive a Lisbona, con una serie di saggi e di appunti per una conferenza tenuta a San Sebastián nel 1947, scritti confluiti nel volume Velázquez, pubblicato nel 1950.

Ciò che Ortega sostiene nella parte dedicata alla biografia del pittore, non trovando troppo favore presso gli storici dell’arte, è la constatazione che il vero scopo del pittore non fu quello di dipingere ma di concretizzare la sua vocazione più profonda: vivere a corte.

A parere di Ortega, Velázquez è un artista prodigio che ha la fortuna di incontrare, nella bottega di Francisco Pacecho presso cui fa apprendistato, il conte-duca di Olivares, braccio destro del re Filippo IV, che agisce da intermediario per farlo entrare a corte. Oltre ai due viaggi in Italia e alla conoscenza di Rubens a Madrid, la sua vita non è segnata da altri eventi determinanti, ma a Velázquez non importa, poiché l’obiettivo di stare accanto al re è ormai stato raggiunto.

Non deve dipingere per vivere e questo è il motivo per cui, secondo Ortega, le sue opere non sono numerose e sono state realizzate con lentezza, spesso sin acabar (incompiute). Un uomo che possiede tutto, grazie a una fortunata circostanza, e che può permettersi di mantenere un certo distacco di fronte alle cose, al punto da essere definito da Ortega il “genio dell’indifferenza”.

Non ci fa nessuna confidenza, non ci dice nulla. Ha dipinto il quadro e se n’è andato, lasciandoci soli dinanzi alla superficie della tela

Ma allora, in cosa consiste la grandezza di Velázquez?

Velázquez, L’acquaiolo di Siviglia, Londra, Apsley House

La realtà in quanto apparenza

Sempre secondo Ortega, a differenza dei caravaggeschi, che schiacciano gli oggetti, quasi “strangolandoli crudelmente”, Velázquez, già nelle sue opere giovanili, come L’acquaiolo di Siviglia, rinuncia al chiaroscuro, riducendolo a strumento per far riapparire gli oggetti perché ciò che conta non è la composizione o il ritmo formale delle linee, dei pieni e dei vuoti, ma avvicinarsi all’oggetto da ritrarre trasformando il quotidiano in una sorpresa. O in un eterno istante.

Velázquez è dunque un realista, ma di un realismo declinato in una versione molto personale, spiega Ortega, poiché della realtà dipinge solo ciò che è strettamente necessario, eliminando quella dimensione tattile che dà volume e tangibilità al soggetto. Le sue poche pennellate riescono a fissare sulla tela la realtà in quanto apparenza ed è in questo volere che le cose non siano altro da quelle che sono che consiste la sua grandezza.

Si contemplino le regine e le infante, l’Innocenzo X, la scena delle Meninas, le damigelle avvolte dalla luce in fondo alle filatrici. Sono documenti di esattezza estrema. Di verismo insuperabile, ma allo stesso tempo esemplari di fauna fantasmagorica

L’eternità dell’istante

Forse, secondo Ortega, è proprio perché in lui l’arte è solo arte che nella sua produzione sono pochi i dipinti di genere religioso. Già negli anni giovanili si rifiuta di rappresentare l’inverosimile, come nella tela Cristo in casa di Marta e Maria. Qui non appaiono né Cristo, né Marta, né Maria, che sono invece presenti in un quadro nel quadro, dando l’illusione di una presenza, ma irreale.

A santi e madonne preferisce le divinità greche rappresentate come gente comune, come in Apollo nella Fucina di Vulcano. Questo non significa che Velázquez sia irreligioso (e Ortega ci tiene a precisarlo) ma solo che ci sono soggetti che non si possono dipingere, perché lo scopo dell’arte per lui è di ridurre la pittura a “pura visualità”.

Ma è anche un altro l’aspetto che rende grandiosa la sua arte e cioè il trattamento dell’istante da rappresentare, che in Velázquez è eterno. Perché la realtà portata alle estreme conseguenze cancella la corruzione del tempo e, secondo Ortega, i suoi ritratti (perché Velázquez è fondamentalmente un ritrattista, scrive), non sono soggetti alla corruzione del tempo.

Nell’istantaneità delle sue scene, sottratte per sempre alla condanna della fine, risiede l’unicità e la grazia del pittore sivigliano, che secondo Ortega offre le sue più felici prove nel Ritratto equestre del conte-duca di Olivares, uno dei vertici più alti della pittura barocca, e nella Dama con ventaglio, definito come “uno dei dipinti più perfetti che esistano”.

La dama con ventaglio, 1638 ca.

Velázquez, Dama con ventaglio, Londra, Wallace Collection