Il post di Barocca-mente di questa settimana ci fa entrare nel mondo di Atín Aya (1955-2007) e della sua fotografia, ricca di rimandi al Barocco spagnolo

La tradizione del Siglo de Oro

Atín Aya, Semana Santa a Siviglia, 1985

Atín Aya, Semana Santa a Siviglia, 1985

Ogni suo scatto apre un ventaglio di orizzonti, ma tutti raccontano la bellezza accecante di una terra senza tempo: l’Andalusia. È qui che si concentra il lavoro di Atín Aya, fotografo sivigliano che nel 1981 si recò a Madrid per studiare presso la scuola Photocentro.

Ricordato soprattutto per Marismas del Guadalquivir opera che riflette le dure condizioni di vita degli abitanti delle paludi e che ispirerà la fotografia del film La Isla Minima di Alberto Rodríguez, realizzò anche, a partire dagli anni Ottanta, una serie di fotografie che rendono omaggio alla sua città, raccolte nel libro Sevillanos. Il suo ultimo lavoro, Paisanos, fu pensato per una mostra che è stata però organizzata solo dopo la sua morte dal Centro Andaluz de la Fotografia, nel 2011.

In tutti i suoi lavori Aya scruta l’anima dei luoghi ma soprattutto delle persone e le restituisce con una straordinaria profondità introspettiva, adottando formule compositive di semplice ma densa efficacia, caratteristiche della sua cifra stilistica, ma anche di una tradizione che continuava a vivere in lui, quella barocca.

1- Velázquez, La friggitrice di uova, 1618 / Aya, Il rito della matanza, 2002 2- Zurbarán, Santa Casilda, 1630-35 / Aya, Concepción Martín Domínguez, 2000

Velázquez, La friggitrice di uova, 1618 / Aya, Il rito della matanza, 2002; Zurbarán, Santa Casilda, 1630-35 / Aya, Concepción Martín Domínguez, 2000

L’oscurità abitata dalla luce

Guardare le foto di Aya, nonostante l’atmosfera assorta che le rende apparentemente immobili, significa immaginare una sceneggiatura, o almeno un copione, così come succede di fronte a un dipinto del Siglo de Oro, dove i personaggi emergono da un fondo scuro che deriva dal tenebrismo caravaggesco, ma anche dal teatro che a Siviglia era vivo, anzi vivissimo. Nella città che vide nascere Velázquez nel 1599 e lavorare Zurbarán dal 1614, il teatro era parte della vita quotidiana, e coinvolgeva tutti, scavalcando la ristretta cerchia della classe colta per entrare a far parte di un immaginario collettivo che non ha mai smesso di esistere.

Ed è così che Aya ha preso a prestito, traducendoli in chiave estremamente personale, gli scenari della pittura barocca. D’altronde è stato lui stesso ad affermare, con un’espressione che riassume tutta la sua poetica, che

“i limiti della mia fotografia sono i limiti della luce”

ammettendo così tutta l’importanza data ai contrasti chiaroscurali che isolano i soggetti dal fondo e conferiscono loro una solennità quasi ascetica. Catturare l’insondabile profondità delle persone e dei momenti, consegnando al pubblico, senza filtri o compiacimenti, un’Andalusia barocca sul punto di svanire: quella degli spettacoli teatrali all’aperto, delle confraternite, della Semana Santa, ma anche delle realtà rurali che resistono tenaci al passaggio della modernità.

Nell’abisso dell’intimità: i ritratti

Come Velázquez, che consegna allo spettatore scene popolari o personaggi che da invisibili diventano rappresentabili, e come Zurbarán, che dipinge una serie di sante dalla rara compostezza, così Aya mostra i suoi soggetti con una purezza che riesce a infondere con efficacia anche alle scene collettive, ridando vita all’universo barocco. E lo fa con la giusta distanza, lasciandoci una testimonianza di atemporalità.

La friggitrice di uova di Velázquez , in quell’intreccio di utensili e di sguardi con il ragazzo che le sta porgendo un contenitore di vetro, sembra essere sgusciata nella foto Il rito della matanza, dove un nutrito gruppo di persone è impegnato in una tradizione che non riesce ancora a estinguersi. O l’anziana donna che con estrema delicatezza e un grande coraggio negli occhi porta due rose nella mano sinistra, dà invece alla giovane Santa Casilda di Zurbarán l’opportunità per farsi umana, ancora una volta.

Così come il ragazzo che interrompe la caccia alla lepre per fermarsi davanti all’obiettivo, non è altro che la reincarnazione del cardinale Ferdinando d’Asburgo, dipinto in cui Velázquez rinuncia al rigido protocollo della ritrattistica reale. Qui un paesaggio roccioso sullo sfondo, lì la terra umida e tutta orizzonte delle paludi del Guadalquivir, appena fuori Siviglia. Ma entrambi emanano dallo sguardo una sospensione misteriosa e interrogativa, che riesce a fermare il tempo. Così come il tempo si è fermato nel dialogo senza voce tra il prete e Cristo appena sceso dalla croce e pronto per addentrarsi tra le vie cittadine, accolto dalla folla di fedeli.

Di fronte al mosaico di tanti personaggi, gli scatti di Atín Aya ci restituiscono la loro persistente e continua umanità, punto di partenza per indagare sullo sguardo novecentesco al Barocco che anche la fotografia può dare.

Velázquez, Il cardinale Ferdinando d’Asburgo in tenuta da caccia, 1635-36 / Aya, Manuel Lara González, 1990; Zurbarán, Cristo crocifisso, 1650 ca. / Aya, Padre Antonio, 2001

Velázquez,  Il cardinale Ferdinando d’Asburgo in tenuta da caccia, 1635-36 / Aya, Manuel Lara González, 1990; Zurbarán, Cristo crocifisso, 1650 ca. / Aya, Padre Antonio, 2001