Con il nuovo post di Barocca-mente torniamo a Capodimonte nel 1957. Il riordinamento della Pinacoteca mostra i «pittori d’influenza Caravaggesca» ma con un grande assente.

 

L’operosità del gruppo di lavoro guidato da Bruno Molajoli a Napoli, che dopo la guerra si riattivò per il recupero del patrimonio con restauri e mostre, culminò nel riallestimento della Pinacoteca Nazionale con le collezioni farnesiane, borboniche e post-unitarie nella reggia di Capodimonte, sottratta all’Accademia Aereonautica. Già prima del conflitto l’allora direttore Sergio Ortolani chiedeva spazi più adeguati alla Pinacoteca, costretta a convivere con la sempre crescente raccolta archeologica nel Palazzo degli Studi.

I lavori, iniziati nel 1952 grazie al finanziamento della Cassa del Mezzogiorno, vennero seguiti da Molajoli e dall’architetto Ezio De Felice e portarono all’apertura il 5 maggio 1957. I due giovani storici dell’arte che con loro collaborarono, proprio grazie al lavoro di recupero e di allestimento del museo riuscirono a innovare i metodi di studio e la lettura dell’arte meridionale: Ferdinando Bologna, curatore della Pinacoteca, e Raffaello Causa, che organizzò la Galleria dell’800.

“Vernissage” a Capodimonte. La più moderna tecnica museografica nelle 100 sale della Reggia borbonica, «Il Giornale», 2-3 maggio 1957

La stampa e un documentario prodotto da Astra Cinematografica presentarono il Museo come il più moderno d’Europa, completo di ogni servizio (oggi diremmo) aggiuntivo, dotato di un centro di restauro, di un impianto di illuminazione all’avanguardia e di depositi ben organizzati.

Deposito del Museo di Capodimonte con i quadri collocati su griglie scorrevoli, 1957

«Tre musei in uno»

Il catalogo del 1957 suggeriva il percorso per una visita ideale, col supporto di disegni e testi esplicativi.

Cominciando dal secondo piano, si attraversava la Galleria Nazionale, dai primitivi al Settecento, seguendo la numerazione progressiva indicata nelle planimetrie e riportata in ogni sala.

Notizie su Capodimonte, catalogo del Museo e delle Gallerie Nazionali a cura di Bruno Molajoli, 1960

Si proseguiva al primo piano, visitando la galleria dell’Ottocento e l’appartamento-museo con la raccolta di porcellane, l’iconografia borbonica, l’armeria, le medaglie, gli oggetti d’arte e il salottino di porcellana.

La Galleria Nazionale al secondo piano si apriva con gli arazzi della battaglia di Pavia in sala 2, per continuare con la Galleria Farnesiana nelle sale dalla 3 alla 20 (dai primitivi al Cinquecento), l’esposizione di disegni antichi nelle sale 22-24 e la galleria della pittura del Sei e Settecento dalla sala 25 alla 45. «Autonoma, organica e moderna sistemazione» di opere d’arte, prima costrette nel Museo Nazionale, dai corcifissi lignei del XIII secolo a Goya.

La disponibilità di nuovi spazi diede modo di organizzare una narrazione della storia dell’arte per epoche e per scuole, evidenziando nuclei omogenei.

Il criterio illuministico, lanziano, in linea con quanto poi enunciato da Bologna nella Coscienza storica dell’arte d’Italia (1982), e la disponibilità di materiale desunto dalle varie collezioni determinarono quella che Roberto Longhi definì «finalmente la mostra di un museo», dopo una stagione di «mostre ideologiche a soffietto, mostre sul diavolo, sugli umanisti, sul barocco e simili svagature di basso intellettualismo».

Roberto Longhi, I capolavori nell’immondezzaio. Come è stata salvata la Galleria d’arte di Capodimonte, «L’Europeo», 2 giugno 1957

La galleria della pittura del Sei e Settecento

Anticipata dall’esposizione di disegni antichi, anello di congiunzione con la sezione del Rinascimento, la sezione del Sei e Settecento, pur priva di dipinti di Caravaggio, consacrò il pittore lombardo esaltandone il passaggio a Napoli, e adottando, per ricombinare le opere, la chiave della pittura della realtà, mentre venne accordato ad alcuni artisti il beneficio di una sala monografica.

Si partiva da quattro sale dedicate ai pittori emiliani del Seicento (con una distinta per i Carracci e una per Lanfranco), continuando con i pittori d’influenza Caravaggesca (Carlo Saraceni, Artemisia Gentileschi, Massimo Stanzione, Mathias Stomer, Simon Vouet, Ribera, Andrea Vaccaro, Battistello Caracciolo), tra cui figuravano una copia di Caravaggio, il San Giovanni Battista (Nelson-Atkins Museum of Art, Kansas City), «fedele derivazione coeva» acquistata a Roma nel 1802 come opera di Bartolomeo Manfredi, e una donazione dello stesso Roberto Longhi, il Martirio di San Sebastiano forse di Alonso Rodriguez o Hendrick van Somer, oggi nei depositi.

San Giovanni Battista, a sinistra, copia da Caravaggio, olio su tela, Museo e Real Bosco di Capodimonte; a destra, Caravaggio, 1604, olio su tela, Nelson-Atkins Museum of Art, Kansas City

Battistello Caracciolo, Fuga in Egitto, 1622-25, olio su tela, Museo e Real Bosco di Capodimonte

Alonso Rodriguez o Hendrick van Somer (attr.), Martirio di San Sebastiano, olio su tela, Museo e Real Bosco di Capodimonte, donazione di Roberto Longhi

Si andava avanti con i pittori del Seicento a Napoli e quelli di natura morta, arrivando al Settecento dei napoletani Giuseppe Bonito, Francesco De Mura, Gaspare Traversi, Francesco Solimena, Domenico Antonio Vaccaro, ai vedutisti veneti e altri artisti del Settecento come Angelika Kauffmann, Anton Raphael Mengs, Giuseppe Maria Crespi fino a Francisco Goya. A Bernardo Cavallino, Mattia Preti e Luca Giordano erano dedicate sale esclusive.

Capodimonte 1957. Sala 31. Pittori del Seicento a Napoli

Raffaello Causa, Pittura napoletana dal XV al XIX secolo, 1957

L’influenza longhiana emergeva anche dalle pagine sulla Pittura napoletana dal XV al XIX secolo di Raffaello Causa, pubblicate nell’anno di apertura della Galleria.

Il riconoscimento di aver dato impulso fondamentale per la ricostruzione e la piena valutazione della Scuola Napoletana dev’esser ancora una volta riaffermato a Roberto Longhi, ai suoi scritti […] ed al suo costante e fecondo insegnamento.

Il testo introduceva il Seicento proprio alla luce dei soggiorni napoletani di Caravaggio:

Il nuovo secolo si apre anche nel Meridione sotto il segno della rivoluzione caravaggesca; nel verbo del moderno si riannodano le fila disperse della pittura locale rivelando una improvvisa somma di energie sopite, e la multiforme vitalità della scuola riprende il suo corso in una trama di soluzioni distinte che la costante qualificazione di cultura accomuna e potenzia.

Le opere del maestro lasciate nei due passaggi in città erano bastate

perché i più illuminati dei pittori già attivi agli inizi del secolo, e le giovani e folte generazioni di artisti chiamate all’impresa febbrile e smisurata del rinnovamento della Napoli Sacra […] intendessero appieno le nuove vie che si aprivano all’espressione figurativa, le nuove e infinite possibilità d’un linguaggio intenso e bloccato, convalidato al segno di un sentimento diretto della natura circostante e della vita.

La chiave caravaggesca dell’ordinamento del Museo, per alcuni, strideva tuttavia con l’assenza di dipinti di Caravaggio nella collezione.

Lionello Venturi, dalle pagine de «L’Espresso», il 12 maggio 1957 osservava che, oltre a non esserci un Raffaello di qualità, per una pinacoteca di tale importanza «l’altra grave mancanza, specie per gli echi nella scuola napoletana, è la mancanza di un Caravaggio».

I dipinti del pittore lombardo erano ovviamente presenti in altri luoghi della città, ma era troppo evidente il vuoto di esemplari utili a introdurre la pagina sulla pittura del Seicento in quel manuale di storia dell’arte che era la nuova Galleria.

La lacuna fu colmata solo molto più avanti, nel 1972, col trasferimento in consegna da San Domenico Maggiore della Flagellazione di Cristo, collocata in posizione privilegiata e sostituita, nella sede originaria, da una copia attribuita ad Andrea Vaccaro.

Caravaggio, Flagellazione di Cristo, 1607, olio su tavola, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, in consegna dalla chiesa di San Domenico Maggiore