Raffaella Besta e Margherita Priarone tornano a scrivere per Barocca-mente raccontando le vicende dell’Ecce Homo di Palazzo Bianco, storicamente assegnato a Caravaggio. Si tratta di un dipinto certamente problematico: incerta è la sua storia antica, incerta la sua provenienza moderna, incerta l’assegnazione a Merisi. Le complesse vicende novecentesche dell’opera, relative in particolare alla sua musealizzazione, oltre che al suo restauro del dopoguerra, possono aggiungere importanti indizi all’insieme di conoscenze sul dipinto, aiutando a comprendere gli sfaccettati aspetti di costruzione di questa attribuzione novecentesca.
Il dibattito degli anni Cinquanta
Il ritrovamento dell’Ecce Homo del Caravaggio, merito di Caterina Marcenaro, ha provocato a Genova una vivace discussione, durante tre consecutive tornate del Consiglio comunale […] l’assessore alle Belle Arti propose ironicamente di porre in votazione se l’Ecce Homo fosse da attribuirsi al Caravaggio…
Caravaggio in Consiglio, “Il contemporaneo. Notizie da Genova”, Roma, 15 maggio 1954
A scatenare il dibattito in Consiglio Comunale a Genova nel 1954 è l’attribuzione di un dipinto delle collezioni di Palazzo Bianco, raffigurante un Ecce Homo e già conservato nei depositi del museo, a Caravaggio!
La storia è nota: Caterina Marcenaro rivaluta il quadro, rimasto ignorato fino al 1951, quando, alla mostra milanese Caravaggio e i caravaggeschi curata da Roberto Longhi, viene esposta un’altra versione dello stesso soggetto, quella della Galleria Regionale di Messina, presentata come “copia cruda” ma “abbastanza fedele” di un originale di Caravaggio perduto.
La Marcenaro, allora Direttore dell’Ufficio Belle Arti del Comune, identifica la redazione autografa del maestro lombardo nel dipinto di Palazzo Bianco, che viene, dopo un importante intervento conservativo a opera di Pico Cellini (1953-54), pubblicato come originale di Merisi dallo stesso Longhi sulla rivista ‘Paragone’.
L’opera al momento della sua ‘riscoperta’ si presentava molto danneggiata: già nelle ‘trabacche’ del museo, dal 1929 era stata trasferita come semplice elemento di arredo sullo scalone di villa Giustiniani Cambiaso, proprietà comunale e allora sede della Regia Scuola Navale, e lì aveva subito i danni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Cellini nel 1953 la descriveva come priva di telaio “coi margini sbocconcellati qua e là” e “uno spesso beverone [che] la sosteneva rigida come una tavola”, con “tante piccole bollicine franate” e “quello aspetto di corteccione fritto e risecchito” che pur tuttavia non impediva di intuirne i segni di “grande nobiltà”.
Nel corso del restauro, il dipinto era stato quindi rifoderato da Decio Podio, ridimensionato nelle proporzioni e ingrandito sulla scorta della menzionata tela di Messina, oltre che risarcito “secondo il metodo del restauro pittorico a scrupoloso intarsio”.
Non è un caso che Pasquale Rotondi ricordi l’opera “trasformata quasi in un rudere” e lo stesso Longhi la definisca “quasi illeggibile” prima dell’intervento del Cellini.
D’altro canto Orlando Grosso, che aveva diretto l’Ufficio Belle Arti prima della Marcenaro (dal secondo decennio del Novecento fino alla fine degli anni Quaranta), esprimeva nei suoi appunti grandi perplessità per il riconoscimento a Caravaggio della tela, “una cantonata sonora”, “un quadro non restaurato ma praticamente ‘ricostruito’ [l’Ecce Homo genovese]” posto a confronto, nella Mostra didattica nel museo di Palazzo Bianco dello stesso 1954, con “un altro (la copia [messinese]) che si trova in ben altro stato”.
Il “barbarico disordine” dei musei civici genovesi e il riallestimento di Franco Albini
L’opinione dell’ex Direttore Grosso si inserisce nel quadro di una più ampia polemica con Longhi innescata proprio dall’articolo del 1954, nel quale quest’ultimo denunciava il “barbarico disordine” del patrimonio civico genovese ante conflitto, puntando chiaramente il dito – in maniera, si aggiunge, non giustificata – sulla sua precedente gestione.
Non era stato un fulmine a ciel sereno: dal 1950, con la riapertura di Palazzo Bianco completamente rinnovato e riordinato sotto la direzione di Caterina Marcenaro con allestimento di Franco Albini, si erano creati in città, e non solo, due fronti contrapposti tra estimatori e detrattori del nuovo museo e il dibattito che ne era scaturito aveva immediatamente assunto anche una coloritura politica, stigmatizzando Grosso come conservatore e ‘uomo del regime’ e Caterina Marcenaro come progressista e ‘donna nuova della resistenza’.
Nel 1951, sul giornale romano ‘Il Nazionale’, troviamo le critiche a Marcenaro significativamente chiosate con un: “Tanto più che – guarda combinazione – essa è iscritta al Partito Comunista”!
Il dibattito sull’Ecce Homo, che aveva portato fino all’assurda valutazione in Consiglio Comunale, aveva dunque solo riattizzato un fuoco già acceso.
Tutta una questione di inventari
Prima del 1951 l’Ecce Homo non aveva ricevuto alcun interesse anche perché il suo ingresso nelle collezioni civiche era stato relativamente recente: lo stesso Orlando Grosso – apprendiamo dalle carte del suo archivio – aveva proposto l’acquisto al Comune nel 1908 di un “Leonello Spada, Cristo mostrato al popolo, buona opera di pittura della scuola bolognese del Seicento conservato in ottimo stato” . Se vi è identità tra le due opere – cosa che sembrerebbe molto verosimile, data la generale assenza di dipinti assegnati a Spada nelle collezioni genovesi già in antico – è probabile che l’ingresso del quadro nelle raccolte comunali segua di alcuni anni, poiché l’Ecce Homo, senza indicazioni di provenienza, viene inventariato solo dopo la burrascosa parentesi della prima guerra mondiale, finendo insieme ad altre tele sopraggiunte nel frattempo, in particolare le numerose del legato di Casa Piola (1913) che comprendevano anche molte copie. Ed è probabilmente per questo che il “Leonello Spada” visto da Grosso diventa una “Copia di un quadro del L. Spada” alla sua prima registrazione – tra altre ‘copie da’ grandi maestri – e poi, nella seconda versione dell’inventario, più chiaramente una “copia da Spada Leonello”.
Tale attribuzione, così ‘cristallizzata’, vedrà poi ulteriore confusione nell’interpretazione: la notazione ‘copia da Lionello Spada’ verrà infatti riportata dalla critica come ‘copia di Lionello Spada’, riconoscendovi dunque non un’opera derivante da un prototipo di Spada, ma un’opera di mano di Spada da un presunto modello caravaggesco. Le campagne diagnostiche sulla tela a quel punto, dagli anni Novanta in poi, si indirizzeranno soprattutto sulla ricerca di pentimenti e altri segnali che attestino il carattere di prima invenzione del quadro.
Ma è ancora legittimo chiedersi: per mano di chi?
Caravaggio o ‘Scimmia del Caravaggio’?
L’attribuzione dell’Ecce Homo di Palazzo Bianco a Caravaggio si è consolidata nel corso della seconda metà del Novecento anche a motivo della storica identificazione con opere di uguale iconografia menzionate nelle carte d’archivio: l’Ecce Homo dipinto nel 1605 per il romano Massimo Massimi; la tela attestata in Sicilia nelle collezioni di Juan de Lezcano, il che spiegherebbe la presenza della copia messinese e di altre copie nel palermitano. Da qui il quadro sarebbe passato a Napoli, quindi a Madrid, e infine a Genova.
La comparsa nel 2021, proprio a Madrid, di un’altra versione di Ecce Homo ritenuta autografa al pari se non più della versione genovese ha di recente scompaginato le carte, accreditandosi come diverso possibile riferimento visivo per i documenti citati e incrinando la posizione dell’Ecce Homo genovese.
Nessuna delle due versioni, notiamo a margine, avrebbe le carte in regola per essere riconosciuta come la tela Massimi, che il contratto del 1605 prevede di dimensioni maggiori. Ma il punto è un altro: quante furono le versioni di tale soggetto realizzate da Merisi o spacciate per tali fin dalla loro realizzazione sul mercato dell’arte romano di inizio Seicento? Quante altre riproduzioni già si conoscono, non ritenute autografe? La compravendita di quadri dipinti alla ‘maniera di’ Caravaggio, in qualche modo sollecitata da artisti vicini allo stesso Merisi, era quasi prassi, in risposta a una crescente richiesta di tele di tale moderno genere di naturalismo. Al punto che, sottolineano gli studi più recenti, non sarebbe stato facile neppure all’epoca distinguere tra repliche, riproduzioni e copie.
Ebbene, in quella che fu una vera e propria operazione di “marketing” dei quadri di Caravaggio, operò in una certa fase della sua attività – “temprando l’ombre rigorose” e con fare “più grazioso” (Malvasia) – anche lo stesso Lionello Spada, non a caso soprannominato eloquentemente, fin dalle fonti antiche, “Scimmia del Caravaggio”.